L'altra faccia della guerra

  



 

L’ALTRA FACCIA DELLA GUERRA

La storia degli ospedali militari a Lecco e nel Lecchese

Nessuno finora aveva mai scritto una storia degli ospedali militari a Lecco. La ventura è toccata a me, su invito della sezione cittadina dell’Associazione mutilati e invalidi di guerra che ha voluto, con la pubblicazione di questa ricerca, ricordare il centenario della propria fondazione.

E’ stato un lavoro complesso. La mancanza di documenti direttamente ed espressamente riconducibili all’argomento mi ha costretto a peregrinare per quasi due anni tra gli archivi di Lecco, Como, Milano e Roma. Ma credo che alla fine ne sia valsa la pena. Quella che è emersa dopo decenni e decenni di oblio, infatti, è una vicenda tutt’altro che marginale per la vita della città e del suo territorio.

Anzitutto perché, dalla prima guerra d’indipendenza (1848-1849) alla seconda guerra mondiale (per l’esattezza fino all’ottobre 1947), in occasione di ogni conflitto da noi furono in attività ospedali militari.

Pur non essendo stato, nel corso degli ultimi due secoli, al centro di grandi battaglie, a causa della sua posizione geografica il territorio lecchese ha sempre avuto notevole rilevanza strategica. La vicinanza al confine con la Svizzera e la collocazione lungo uno dei più importanti assi di comunicazione tra la pianura lombarda e il nord delle Alpi hanno fatto sì che fosse via via sede di guarnigioni, di presidi, di distretti militari e, di conseguenza, di ospedali militari.

Anche la Valsassina è stata direttamente coinvolta in queste vicende. Sede di stazioni di tappa per le truppe austriache fino oltre metà Ottocento, è dichiarata con tutto il Lecchese “zona di guerra” durante il primo conflitto mondiale (addirittura di “seconda linea” da fine 1917, dopo la disfatta di Caporetto), viene individuata come terreno ideale per le manovre militari nel periodo compreso tra le due guerre e diventa infine uno dei principali teatri di battaglia lombardi durante la guerra di liberazione (1943-1945). Non solo. A ridosso del 25 aprile 1945 e per un lungo periodo successivo, a Balisio, nell’edificio che ora è sede dell’Alva e che all’epoca era colonia per i figli dei dipendenti del cotonificio Cederna di Monza, fu prima allestito un campo di detenzione temporanea per i prigionieri appartenenti alle milizie della Repubblica sociale italiana e poi un centro contumaciale, gestito dal Sovrano ordine di Malta, per militari e civili reduci dai campi di concentramento e di prigionia.

       

Come si diceva, quella degli ospedali militari fu una vicenda importante per il nostro territorio.

Detto della posizione strategica, è da sottolineare la varietà e la complessità dei rapporti che si intrecciarono in quei diversi periodi tra le amministrazioni – cittadine e provinciali – e i comandi militari. Rapporti talvolta proficui, più spesso aspramente conflittuali. Al centro, in epoca asburgica, gli oneri gravanti sugli enti locali per il sostentamento delle truppe; in epoca sabauda, quelli derivanti dalla istituzione e dall’allestimento degli ospedali militari. Oneri che, come è facile intuire, finivano per gravare sui cittadini in aggiunta a quelli, già rilevantissimi, legati alla conduzione ordinaria della guerra.

Ci sono poi altre ragioni, ancor più rilevanti. Soprattutto nel corso delle due guerre mondiali, le vicende degli ospedali militari cittadini – ubicati, tra il 1915 e il 1919, presso le scuole di via Ghislanzoni e, tra il 1942 e il 1947, presso le scuole del Caleotto, oggi sede dell’istituto Badoni – si intrecciarono strettamente con quelle di centinaia, forse migliaia, di lecchesi che si trovarono a prestarvi la loro opera, quasi sempre a titolo volontario. Crocerossine, visitatrici, insegnanti, assistenti, guardarobiere, cucitrici, lavandaie, stiratrici, portantini, oltre naturalmente ai fornitori dell’esercito, ebbero un rapporto quotidiano con gli ospedali e i militari ricoverati che favorì il nascere di relazioni personali e lavorative che in moltissimi casi si prolungarono ben oltre il tempo di guerra diventando stabili e definitive.

Soprattutto, però, con il continuo affluire di militari feriti, mutilati, malati, questi ospedali divennero coscienza tangibile delle conseguenze della follia della guerra. Anche per chi, non direttamente coinvolto, era più restio a prenderne coscienza. Rappresentarono cioè, agli occhi dei lecchesi, l’altra faccia della guerra, quella lontana dalle battaglie, dagli eroismi, dalle epopee, ma tanto più vicina al sentire comune: la faccia fatta di sacrificio, di sangue, di dolore.

Il libro Il capitano l’è ferito, nato come risultato di questa ricerca, vuole essere soprattutto questo: momento di memoria di fatti, persone, circostanze ed edifici che sono parte della nostra storia e che, come tali, non vanno dimenticati.

                                                    
                                                                       Angelo Faccinetto


IL GRINZONE n.59