Precoce autunno

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   Incanto e spaesamento: se «la nebbia cancella/ le ombre dei pini», essa, però è «d’argento» e non ha nulla a che vedere con il grigiore fumoso che cancella tutto; infatti, qui, cancella solo le ombre, perché non c’è il sole a proiettarle, mentre i pini, proprio perché pini, conservano intatta la loro verde vita di là da essa. La nebbia, cancellando le ombre, crea l’incanto dello spazio che s’allarga davanti agli occhi di chi guarda, di Antonia Pozzi: i giardini sono diventati «più grandi», i loro confini si sono dilatati fino a perdersi nel baluginìo dell’alba, che, proprio dalla nebbia d’argento, piuttosto che malinconico grigiore, sembra ricevere luce.
   È realtà o sogno? Antonia usa il verbo sono, presente indicativo, che è il modo della certezza: la nuova vastità dei giardini non è dunque una finzione, un’apparenza, ma una realtà nuova, carica di stupore, creata dalla nebbia; giardini senza ombre, luminosi, ma che suggeriscono che anche un certo timore, quello di avere smarrito l’orientamento, perché non si hanno più precisi punti di riferimento.
   È realtà ed è sogno: ci pare di andare cauti e stupiti in un regno di fiaba, dove non si sa quali misteri si possano celare prima e dopo ogni passo. È il fascino dell’infinito, che affonda nello spirito e lo ferisce, lo spaesa, essendo privato lo sguardo, e più che lo sguardo il cuore, di quei limiti visibili che danno sicurezza; al tempo stesso, gli spazi, sconfinati dal loro perimetro abituale, aprono lo spirito a ogni imprevedibile godimento: di silenzio e di bellezza, di soave leggerezza, di pienezza di vita. Si ha la sensazione che anche gli occhi di Antonia si facciano più grandi, spalancati sull’improvvisa e inattesa infinitezza. E gli occhi “più grandi”, resi più attenti ai particolari per la difficoltà di coglierli, o forse semplicemente gli occhi del cuore – «Non si vede bene che con il cuore», ha scritto Exupery – che ricordano quanto hanno già visto e sofferto, scoprono all’improvviso che «al pioppo una foglia è ingiallita» e che «un ramo è morto al castano/ sul monte». E l’incanto si spezza: le due immagini, incuneandosi nella «nebbia d’argento», vi gettano la pesantezza e la tristezza di due rintocchi di campana amorto.Il lontano ricordato – foglia e ramo – e il vicino contemplato come in sogno – la nebbia d’argento – si scontrano, squarciando il velo del mistero e svelando la presenza della morte, un mistero di cui foglia e ramo non sono però consapevoli; infatti ingiallire e morire per essi sono «spaventi che non sanno se stessi», e il loro morire è un dormire «nell’aria celeste». Di quanta soavità si carica questo attributo dell’aria, di quanta pace, di quanta dolcezza. E se la loro è una morte che «ritorna ogni anno», essa è soltanto una sosta, un breve riposo, un’attesa.

  E l’uomo? Qual è il suo spavento di fronte alla morte? Non è spavento: tanto forte è il suo attaccamento alla vita e tanto grande il mistero della morte, che egli non prova spavento, ma stupore. L’uomo che sa di morire, che vede morire, tuttavia non pensa alla morte: essa gli appare forse come «l’ombra dei pini», cancellata, solo essa, dalla nebbia, mentre i pini dormono anch’essi «nell’aria celeste» e attendono il risveglio primaverile.
   L’uomo, che sa di morire, si stupisce di morire: il suo sogno è l’eternità.

 

                                                                                                                                                                                           Onorina Dino

IL GRINZONE  n.41