Sgorgo

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A che cosa allude il titolo di questa poesia? Che cosa è questo «sgorgo», questo fluire improvviso, di ciò che Antonia Pozzi chiama «il mio più puro sangue»?

Bisogna percorrere tutto il testo e soffermarsi sulle parole, soprattutto alcune, che ci permettono di giungere a una chiarificazione e, quindi, alla comprensione.

Lo “sgorgo” di cui parla Antonia Pozzi è una liberazione, come quella dell’acqua, che trova finalmente un passaggio fra le rocce per zampillare in fresca sorgente, o come quella del sangue che, repentino, fluisce da una ferita aperta, anzi “riaperta”: di «ferita che nel sonno si riapre» e torna, quindi, a dolere più forte; parla infatti la poetessa, nella seconda strofe, di fonte «che si scioglie nella steppa» e perciò le ridà vita e vigore.

«Per troppa vita che ho nel sangue / tremo/ nel vasto inverno»: quanta forza in questo aggettivo che accompagna l’inverno, con la sua “a” che sembra echeggiare all’infinito nell’aria fredda, rendendo più acuta la sensazione di brividi creata dalla t e dalla r dei termini “troppa” e ”tremo”. È, certamente, un inverno dello spirito, un inverno tutto interiore, fatto di solitudine, di angoscia, di paura di un fallimento, di un cedimento morale: Antonia deve essersi sentita ferita profondamente da qualcuno o da qualche evento negativo nella propria vita, sì che ora una morsa di gelo invade tutto il suo essere e la fa tremare e sembra volere strozzare la sua «troppa vita», il suo anelito alla pienezza, alla compiutezza di sé, alla liberazione dal sentimento di rancore che forse l’attanaglia, suggerendole atteggiamenti di resistenza e di distanza, di chiusura nei confronti degli altri o della realtà che l’ha ferita. Antonia lamenta questa possibilità nella poesia Fuochi di S. Antonio, che si colloca cronologicamente subito dopo Sgorgo: «[…] in me nulla che possa/ essere arso,/ ma ogni ora di mia vita/ ancora – con il suo peso indistruttibile/ presente – / nel cuore spento della notte/ mi segue».

   In questa condizione di estrema angoscia – che in Evasione, la poesia che precede Sgorgo, è accettata e vissuta come «gioia dura d’essere/ creatura in sé conchiusa,/ unica nel freddo cielo/ invernale –», improvvisamente si fanno strada, con l’impeto che esclude ogni ragionamento, perciò «perdutamente», pensieri che popolano e illuminano il buio fitto del cuore, il «deserto castello della notte». Dalla lotta per superare i propri sentimenti negativi, nella solitudine della notte, mentre le lampade si consumano inutilmente perché le stanze sono deserte – «mute/ stanze» –, da questa lotta, germoglia, come un fresco fiore di primavera, una «creatura di fiaba», una «parola bianca».

   Il bianco è il colore della luce, è privazione di ombre, di oscurità, di macchie; è sinonimo di purezza. La «parola bianca» è rafforzata dall’immagine delle «colombe», simbolo di pace, che «si levano sull’altana/ come alla vista del mare»: due immagini-simbolo troviamo in questi due versi: il levarsi delle colombe e il mare. Si incomincia a capire, da esse, che la pesantezza della pena sofferta, l’asprezza del dolore, il bruciore della ferita stanno lentamente lasciando il posto, nello spirito di Antonia, a un sentimento di sollievo, di leggerezza, di volo, di un andare al di là del proprio dolore, a una decisiva liberazione. E quale altra immagine, se non quella del mare dà la sensazione dell’oltre, dell’immensamente aperto, dell’infinito? Certamente anche il cielo: ma cielo e mare si possono mai pensare separati? E il levarsi delle colombe sull’altana non presuppone l’alto, appunto, il cielo?

   Si giunge, così, all’ultima strofe che si apre con la parola «bontà»: parola che suona forte, come un grido di vittoria, isolata com’è tra la pausa della spaziatura che la precede e la virgola che la segue e posta a iniziare il verso e la strofe; e non solo; essa è ripresa subito dal «tu», come se la poetessa si rivolgesse a un’entità viva, preziosissima, smarrita «nel vasto inverno» e finalmente ritrovata: «tu mi ritorni». E allora il gelo dell’anima si scioglie, e Antonia ritrova il suo essere più vero: persona che ama e, amando, perdona. Ecco il «più puro sangue» di Antonia, la parte migliore di sé, la sua vera natura, che non le permette di chiudersi a riccio, ruminando l’offesa, ma fa maturare in lei la disponibilità al perdono: la «creatura di fiaba», la «parola bianca - lieve» della seconda strofe. Ora la ferita, riapertasi nel «deserto castello della notte», è sanata e il cuore può, finalmente, gustare la dolcezza di un pianto liberatorio. Anche questo è uno sgorgo.

                                                                                                                                                                                                                           Onorina Dino


IL GRINZONE n.43