Le poesie Pasturesi e la famiglia Ferrario
Le Poesie Pasturesi di Antonia Pozzi e la famiglia Ferrario: ricordi e curiosità
Nell’ottobre 1954 usciva a Lecco da Arte Grafica Valsecchi una rara, pregevole raccolta antologica di poesie pozziane dedicata al piccolo borgo ai piedi della Grigna con il titolo di Poesie Pasturesi, pubblicata “a beneficio dell’Asilo Infantile Antonia Pozzi di Pasturo”, con lo scopo, al tempo stesso, di offrire ai Pasturesi un “ricordo vivo e fedele” della poetessa milanese che aveva scelto Pasturo come “luogo dell’anima”.
A curarne, promuoverne e finanziarne la pubblicazione fu, come nel caso dell’edizione privata di Parole del 1939, il padre della poetessa, l’avvocato Roberto Pozzi (Milano, 26 settembre 1882 - 28 gennaio 1960), al quale si deve, quasi sicuramente, anche la stesura della “Nota informativa” (pp. 22-23) posta in calce alle Poesie Pasturesi.
Eccone uno stralcio.
[…] a Pasturo Antonia trascorse da tre a quattro mesi di ogni anno fra il 1918 e il 1938, da bambina a giovinetta a giovane donna; e la sua adolescenza risultò come plasmata nel paesaggio solenne e sereno, ma anche un po’ malinconico, delle montagne valsassinesi; mentre la naturale dolcezza ed umanità del costume e della vita le facevano prediligere le cose e le persone del piccolo borgo montano, rendendola confidente ed amica di tutti, specialmente degli umili; vecchi, giovani mamme, bambini, fra i quali ella crebbe come una di loro, sempre ricambiata di eguale simpatia ed affetto.
Perciò, dopo la sua immatura scomparsa e quando, per espresso suo desiderio, ella ebbe trovato la sua pace nel cimitero di Pasturo, per unanime voto di tutti i capi famiglia venne a lei intitolato l’Asilo Infantile, già nel 1927 restituito a’ suoi fini benefici, ed eretto nel 1930 in Ente Morale.
Questo volle essere da parte dell’intera popolazione uno speciale tributo alla sua gentilezza e bontà; che un fedele della Valsassina evocava a quel tempo così: «Noi la vedemmo passare sorridente nelle stradicciuole di Pasturo, inerpicarsi sotto i castagneti, cogliere i fiori umili dei prati, accarezzare i bimbi ignari, asciugare il pianto dei vecchi: come una fata, come una piccola santa protettrice della gente rurale che prediligeva…» (C. F. 1939). Nessuno sapeva allora che fra le sue carte segrete ella avesse lasciato tre preziosi quaderni di poesie, che costituiscono come un diario di dieci anni di vita, e che, pubblicati poi parzialmente e in semplice edizione privata sotto il titolo di «Parole», ebbero immediata eco di riconoscimenti e di consensi; talchè in breve volgere di tempo se ne ebbero ben tre edizioni italiane per i tipi di Mondadori, due edizioni tedesche ed altra rumena, mentre si preparano quelle inglese e francese. […]
È sembrato pertanto opportuno di stralciare, dalla complessa e varia opera di poesia di Antonia Pozzi raccolta sotto l’originario titolo di «Parole», un piccolo gruppo di liriche concepite e scritte a Pasturo e specialmente inspirate al suo paesaggio e alle sensazioni da esso derivate. Si è inteso con ciò di rispondere al desiderio dei Pasturesi che continuamente ne fanno richiesta e di offrire questo ricordo vivo e fedele di lei ai sostenitori e benefattori dell’Asilo Infantile, intitolato al suo nome.
Pasturo, Ottobre 1954.
All’interno di questa “Nota informativa” mi sembra particolarmente interessante e curiosa la misteriosa sigla “C.F.” che suggella la citazione di un “fedele della Valsassina” che nel 1939 ricordava Antonia “passare sorridente nelle stradicciuole di Pasturo … come una fata”. Ebbene, dietro la sigla “C.F.” si cela il giornalista comasco Carlo Ferrario, amico della famiglia Pozzi: la citazione del 1954 riprende infatti uno stralcio della lettera scritta dallo stesso Ferrario l’“8 agosto 1939 - XVII” e pubblicata nella sezione “Messaggi di maestri, di scrittori, di amici” apparsa su “Lecco. Rivista di Cultura e Turismo” (a. V, n. 5-6, settembre-dicembre 1941, p. 66), un numero monografico interamente dedicato ad Antonia Pozzi.
Ferrario, chi era costui? Nato a Mandello del Lario il 6 settembre 1903 e spentosi a Como il 22 agosto 1962, Carlo Ferrario fu uomo politico e insegnante con la passione per la poesia e soprattutto per il giornalismo. Divenne direttore del bisettimanale lecchese “Il nuovo Prealpino” e, trasferitosi in Libia, ricoprì la carica di redattore capo di “Cirenaica nuova”. Fu poi direttore del comitato redazionale della rivista “Lecco. Rivista di Cultura e Turismo” e condirettore del settimanale comasco “Ol Tivan”. Fu sempre profondamente legato alla Valsassina (riposa al cimitero di Introbio), fu amico dell’avvocato Pozzi e ne frequentò spesso la casa di villeggiatura con il figlioletto Carlo, detto Carluccio, che sarà poi compositore, romanziere e saggista, scomparso il 26 dicembre 2019 all’età di 88 anni. Ecco come il piccolo Carluccio ricorda il suo memorabile incontro con “la signorina Antonia” avvenuto all’età di 6 anni (C. Ferrario, Alfabeto comasco. Luoghi, anni, persone, Como 1989, p. 84).
[…] Di poeti se ne incontrano ad ogni angolo… ma a me basterà ricordare due incontri. Da piccolo ero incantato all’idea di poter vedere da vicino un esemplare in carne ed ossa di questa magica stirpe: si trattava di Antonia Pozzi, che villeggiava in Valsassina e che da sempre conosceva i miei. Non avevo allora nessun strumento valutativo, ma sapevo che la signorina Antonia scriveva poesie, e questo mi bastava per guardarla come se fosse stata una dea…Una fotografia scattata nel suo giardino coglie un po’ del mio stupore […].
Di questo incontro resta una foto raffigurante Carluccio con Antonia nella primavera-estate del 1937. Un incontro emozionante per il Ferrario, tale da divenire un evento fondante e formativo della sua esperienza, un ricordo conservato gelosamente e affidato “alla sua privata mitografia” e consegnatoci “come un mirabile cammeo” (V. Guarracino).*
Marco Sampietro
* Per una più ampia trattazione del tema e per i riferimenti bibliografici e archivistici si veda lo studio di M. Sampietro, Antonia Pozzi, Carlo e Carluccio Ferrario, in “Archivi di Lecco e della Provincia”, 45, 1, 2022, pp. 97-100.
IL GRINZONE n.83
300 parole di Antonia Pozzi
Furono proprio 300 le prime Parole di Antonia Pozzi?
Dagli archivi Mondadori ne risultano ben 472
Trecento furono, come narra la tradizione, gli Spartiati che, durante le guerre persiane, guidati dal re spartano Leonida, caddero eroicamente nella celebre battaglia delle Termopili (480 a.C.) contro l’esercito del re persiano Serse dopo una strenua resistenza1.
Trecento furono i “giovani e forti” che nel 1857 morirono nella tragica, fallimentare spedizione di Carlo Pisacane e dei suoi compagni per suscitare un’insurrezione popolare antiborbonica nel Regno delle Due Sicilie2.
Quante furono – ci domandiamo ora – le prime Parole di Antonia Pozzi? Innanzitutto, è necessaria una precisazione: per “prime Parole” non si intendono qui certo le prime parole pronunciate dalla piccola Antonia, ma si intende la prima edizione, cioè l’editio princeps (direbbero i filologi) delle prime novantuno liriche pozziane, intitolata per l’appunto Parole (termine che la stessa poetessa usava per indicare i propri versi), che uscì nel maggio 1939 dai torchi dell’officina veronese Arnoldo Mondadori. Quanti furono gli esemplari delle prime Parole di Antonia Pozzi stampati per iniziativa della famiglia “in forma privata e per una limitata divulgazione” (come si legge nella scheda editoriale, datata giugno 1939), “per onorarne la memoria e per offrire un ricordo di Lei vivo e fedele a quanti Le vollero bene” (come si legge nella prefazione firmata dai genitori e datata 3 maggio 1939)? Dell’editio princeps, come si precisa al colophon3, furono stampati trecento esemplari (come i trecento Spartiati morti alle Termopili), di cui dieci contraddistinti, sempre al colophon, dalle iniziali “A.L.” (i cosiddetti esemplari “Ante Litteram”) e duecentonovanta numerati meccanicamente in cifre arabiche4. Ma c’è di più. Le prime Parole di Antonia Pozzi furono anche una pregevole, lussuosa ed elegante edizione d’arte: veste tipografica assai raffinata, custodia editoriale in cartone illustrato, legatura in una leggera brossura, rivestita da una sovraccoperta alla francese, stampata in color terra di Siena bruciata e impreziosita da “delicati disegni” del pittore abruzzese Michele Cascella5 cui si devono pure la decorazione della custodia e le illustrazioni contenute nel volume.
Quella del 1939 fu dunque non solo la pietra miliare della fortuna critica della poesia pozziana che culminerà con l’ingresso di Parole nella prestigiosa collana mondadoriana de “Lo Specchio. I poeti del nostro tempo” con prefazione di Eugenio Montale, ma anche un volume destinato a diventare, nel giro di pochi anni, una vera e propria rarità bibliografica da far gola a tanti collezionisti e bibliofili.
Alla fortuna critica si accompagna però anche il mistero che avvolge le complesse e intricate vicende editoriali di questa prima raccolta pozziana.
Oltre alle trecento copie distribuite in forma privata dalla famiglia ad amici e conoscenti della poetessa nonché a docenti universitari, scrittori, critici letterari, giornalisti e a molte biblioteche italiane, ne circolano, infatti, numerose altre in tutto conformi a quelle della princeps, tranne che al colophon, dove scompare l’indicazione “ESEMPLARE” con la sigla “A.L.” o con il numero. Questi ultimi esemplari poi risultano impressi su carta comune, per lo più privi di custodia, con sovraccoperta, titolo al frontespizio e tutte le illustrazioni al loro interno stampate in color verde oliva o in inchiostro nero. Diverso è anche il foto-ritratto della poetessa: Antonia non appare più a mezzo busto, con un delicato sorriso e il capo lievemente reclinato, ma è colta seduta di tre quarti su una staccionata, sotto un loggiato, con lo sguardo rivolto verso le Tre Cime di Lavaredo sulle Dolomiti (fotografia scattata nel 1938). Su questi esemplari compare, infine, una pecetta editoriale in carta patinata (mm 76x19) con un avviso a stampa (incorniciato in un filetto semplice) che recita: “IN VENDITA PRESSO LA | CASA EDITRICE A. MONDADORI | Milano - VIA CORRIDONI N. 39”. Ci troviamo quindi di fronte alle “prime copie commerciali di Parole” o – se si preferisce – agli esemplari della “prima edizione Mondadori”, come risulta da un dépliant che è possibile ancor oggi rintracciare in qualche esemplare. Il pieghevole, stampato da Mondadori dopo il settembre 1939, recita infatti, nel suo box conclusivo: “In vendita soltanto presso le principali librerie | italiane e presso la Casa Editrice A. Mondadori, | Via Corridoni, 39, Milano. | Edizione di lusso, su carta a mano di | Fabriano e custodia ... L. 20, - | Edizione comune ... L. 10, -”.
Per quanto riguarda la prima tiratura di Parole, il mistero della princeps, come ho già dimostrato in un articolo del 2019 dopo aver censito cinquanta esemplari di Parole e aver consultato l’archivio della Casa Editrice Mondadori6, è chiarito grazie al registro delle “Tirature dei libri A.M.E. del Magazzino Editoriale di Verona 1924-1980”7, da cui si evince che dell’edizione del maggio 1939 furono stampate “472 copie, in brossura, al prezzo di £ 10, di cui 198 di lusso, al prezzo di £ 20”. Le 172 copie in surplus, non numerate né altrimenti precisate, impresse su carta comune, furono messe in vendita dalla stessa Casa Editrice già nell’autunno 1939, se non addirittura nei mesi precedenti, “aderendo alle insistenti richieste provocate dai giudizi di stampa”, come accade anche oggi con i libri di pregio e / o di nicchia, sostenuti a monte da privati.
Ecco così risolto il mistero delle vicende editoriali dell’editio princeps di Parole. Spiace constare che, nonostante il mio articolo del 2019 sia stato segnalato su un importante repertorio bibliografico8, non si tenga purtroppo ancora conto di queste nuove acquisizioni (penso, nello specifico, all’articolo di Giovanni Biancardi, Rarità bibliografiche di Antonia Pozzi. Fra poesia e ricordo, in “la Biblioteca di Via Senato – Milano”, a. XIII, aprile 2021, pp. 13-17), come se gli scopi commerciali prevalessero su quelli culturali.
Marco Sampietro
1 Il sacrificio dei Trecento ha ispirato anche artisti della nostra epoca, dalla letteratura all’arte, dal fumetto al cinema. Si pensi al kolossal statunitense 300, diretto nel 2007 da Zack Snyder a partire da un adattamento dell’omonimo romanzo a fumetti di Frank Miller, a sua volta ispirato al film The 300 Spartans (in italiano L’eroe di Sparta) di Rudolph Maté, del 1962. Come gli eroi dei poemi omerici, per i Greci Leonida e i suoi divennero un mito. E lo sono ancora oggi nel nostro immaginario collettivo.
2 È l’argomento della celebre ballata La spigolatrice di Sapri di Luigi Mercantini (1821-1872), il più noto rappresentante della lirica patriottica risorgimentale.
3 “Termine con cui viene indicata la formula posta in fine ai libri dai primordî della stampa ai primi anni del sec. XVI; conteneva, generalmente, il nome dello stampatore, il luogo e la data di stampa e, spesso, altre notizie inerenti alla pubblicazione del libro (nome del correttore, di chi aveva concorso nella spesa, ecc.)” (Enciclopedia Italiana - Treccani). Il colophon, caduto in disuso nel corso del XVII secolo, è attualmente utilizzato solamente in alcune edizioni d’arte, spesso a tiratura limitata, come nel caso di Parole.
4 “DI QUESTA, OPERA, EDITA IN FORMA PRIVATA | PRESSO LE OFFICINE GRAFICHE A. MONDADORI | IN VERONA, SONO STATE STAMPATE, SU CARTA | SPECIALE DI FABRIANO, 10 COPIE ANTE LITTERAM | E 290 NUMERATE DALL’1 AL 290. | MAGGIO 1939 – XVII”.
5 M. Sampietro, Antonia Pozzi nei “delicati disegni” di Michele Cascella. La sovraccoperta illustrata di Parole (1939) e l’ex libris della poetessa (1932), in “Il Grinzone”, a. XVIII, n. 67, luglio 2019, pp. 4-6.
6 M. Sampietro, Parole di Antonia Pozzi (1939). Vicende editoriali dell’editio princeps mondadoriana, in “Archivi di Lecco e della Provincia”, a. XLII, n.1 (giugno 2009), pp. 103 -123.
7 Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, Archivio storico Ame, Sezione Documenti sonori e audio visivi.
8 “L’Almanacco Bibliografico. Bollettino trimestrale di informazione sulla storia del libro e delle biblioteche in Italia”, a cura del C.R.E.L.E.B, dicembre 2020, numero 56, pp. 36-37.
IL GRINZONE n. 85
Che cosa cerca, ancora, Antonia? (1)
Che cosa cerca, ancora, Antonia? prima parte
“Cercavo i ciclamini fra i rovai”. Antonia Pozzi, come nei suoi versi di ‘Canto selvaggio’, anche nella vita, nonostante il dolore – anzi, proprio perché sa il dolore – cerca la bellezza. Guarda il mondo per quello che è, nel bene e nel male. C’è il “velenoso mondo” (‘Fuga’), ma pure che “l’anima mia di fiore / era fiorita / per tutti i prati / di tutti i paesi” (‘Colloquio’). E poi il suo essere assoluta non significa essere esclusiva. Lei accoglie: attraverso la poesia, con la fotografia, nel cuore. Comprende la complessità dell’esserci, consapevole della propria fragilità e insieme della propria ardente dignità. È inclusiva ed empatica.
Che cosa cerca, ancora, Antonia? Lo abbiamo chiesto a Onorina Dino e Graziella Bernabò, curatrici del volume “Parole. Tutte le poesie”, edito da Àncora. In questo numero partiamo con Suor Onorina.
Suor Onorina, chi era Antonia Pozzi e che cosa cercava?
OD: Antonia Pozzi era una giovane in cerca di amore, con la A maiuscola, e desiderosa di dare amore. Da bambina amava, com’è naturale, i genitori e tutti i suoi parenti, in particolare la nonna “Nena”; amava le sue amichette, soprattutto quelle di Pasturo, che le consentivano grandi corse per i campi, dove parlava ai fiori e li accarezzava, dove poteva meglio immergersi in un’aria di libertà e di respiro, sotto il cielo azzurro e il sole acceso sui monti. Questo amore diventò presto amore per il sapere, l’arte, la cultura, la poesia, la musica, il bello, il bene e amore per la fotografia, perché le cose, le persone, la natura avevano per lei un loro sentimento nascosto che l’obiettivo doveva cercare di cogliere, per sottrarle alla realtà effimera del tempo e assicurare loro un’esistenza più vicina possibile all’eternità. Per Antonia Pozzi il bello era sia quello visibile sia quello irraggiungibile, immaginato e sognato attraverso gli affetti umani, la bellezza e l’altezza delle montagne, il sorriso innocente dei piccoli e quello umile della gente semplice, con la quale condivideva la profonda umanità; infine il bello della poesia e dell’arte.
Dopo “Poesia che mi guardi”, edito nel 2010 da Luca Sossella Editore, è stata pubblicata questa nuova raccolta, che contiene anche l’inedita ‘Gelosie’. Come mai è stata recuperata solo ora questa poesia? Ci racconti la storia di questo nuovo volume e, se ci fosse, anche di qualche episodio “inedito” durante la sua elaborazione.
OD: Questa edizione di Parole del 2015, poi ristampata nel 2016 e nel 2017, è nata dalla volontà della casa editrice e di noi curatrici di far risuonare ancora – e, per la prima volta, nella sua integralità – la voce poetica di Antonia Pozzi, tanto più che erano divenute ormai introvabili sia l’edizione del 2008 di Viennepierre Poesia mi confesso con te. Ultime poesie inedite sia l’edizione Sossella. La nuova edizione, come si conviene a ogni serio lavoro di curatela, ha costretto, per così dire, Graziella Bernabò e me a un esame ex novo degli autografi di Antonia, essendo noi consapevoli delle cancellazioni e dei tagli apportati ai manoscritti della poetessa dal padre di lei, Roberto Pozzi. Abbiamo voluto fare un lavoro estremamente accurato, che fosse il più possibile preciso, nel senso della rispondenza perfetta agli scritti di Antonia, eliminando ogni intervento censorio e ogni cambiamento stilistico e/o contenutistico. Questo lavoro – oltre che al necessario confronto tra gli autografi e le poesie trascritte in vari taccuini da Lucia Bozzi, la grande amica di Antonia e custode di molte sue carte durante la sua vita e, soprattutto, dopo la sua morte – ci ha spinte anche a cercare di restituire l’unica poesia rimasta ancora chiusa nei quaderni di Antonia per la grande difficoltà incontrata a ogni tentativo di lettura di questo testo, a causa delle pagine in parte tagliate e in parte incollate una sull’altra da Roberto Pozzi allo scopo di salvare i testi che intendeva conservare. Questo lavoro ha richiesto molto tempo e notevole pazienza e abilità, non solo per decifrare la parte di poesia che si intravedeva, ma anche per non rovinare, scollando le pagine, quel poco che di essa era rimasto.
La poesia, infatti, nei quaderni di Antonia non è completa a causa dei tagli di cui ho detto, ma abbiamo potuto integrare le parti mancanti proprio grazie ai taccuini di Lucia Bozzi. Con Gelosie abbiamo scoperto un importante tassello della personalità di Antonia, la quale non teme di svelare, proprio nel titolo, quell’ombra che aveva tentato di offuscare il rapporto d’amicizia tra lei e Lucia, perché il suo professore, aveva donato a quest’ultima – un’ex allieva da lui molto apprezzata – una fotografia del fratello Annunzio, morto in guerra nel 1918, e Lucia, pensando di farle cosa gradita, gliel’aveva mostrata. È molto interessante leggere, nella seconda parte del testo, come Antonia si sottoponga a un serio esame di coscienza, che la porta a riconoscere e a condannare il proprio errore, quando il suo sguardo e il suo cuore s’incontrano con l’infinito del cielo e con la luce delle stelle che in esso ardono: da Cervi lei ha avuto la cosa «più dolce»: un amore purissimo, perciò non ha alcuna importanza che egli abbia scelto come destinataria della foto Lucia. Inoltre scopriamo in questa poesia dell’adolescenza la nota fondamentale della pedagogia di Cervi professore, che, avendo certamente notato la grande sensibilità di Antonia e il suo affetto crescente per lui, anche se lei ancora non glielo aveva rivelato, e la passione con cui si era accostata alla figura del fratello morto in guerra, aveva preferito regalare una fotografia di Annunzio a Lucia, certamente più matura di Antonia e dalla sensibilità più equilibrata. Possiamo comprendere dunque quanto fosse forte l’ascendente educativo che egli esercitava su Antonia dai versi che chiudono la poesia: «Che io lo segua in purità egli vuole: // ed io lo seguirò, verso la vetta».
C’è scarto tra il donarsi poetico e il donarsi esistenziale di Antonia? Arte e vita dove si scontrano e dove si incontrano nel senso più vero?
OD: Antonia Pozzi intitola Bellezza una sua poesia del 1934, dedicata a Remo Cantoni; a partire da questa poesia forse possiamo capire anche qualcosa del rapporto tra arte e vita, tra il donarsi poetico e il donarsi esistenziale di Antonia Pozzi. E scopriamo che si tratta di un rapporto di incontro, e di incontro profondo: Antonia fa dono all’uomo che sogna di avere come compagno della propria vita non solo di se stessa ma anche di tutto ciò che ha riempito di bellezza fino a quel momento la sua vita: e sono paesaggi, montagne e mari, cielo e sole e stelle, albe e meriggi e tramonti, brezza e vento, ulivi e spighe, e colonne e statue, e cipressi e nidi…e il suo essere come uno stelo che di fronte alla bellezza trema ed è costretto a chinarsi, piegato dal vento. E che cosa è l’arte se non qualcosa che nasce dal cuore, dalla mente, dalle mani dell’uomo, animato e al tempo stesso reso estatico dal fascino della bellezza? Non è l’arte un’esigenza dello spirito? Del resto basterebbe leggere alcune lettere di Antonia a Tullio Gadenz, come quella dell’11 gennaio 1933, in cui scrive: « […] la poesia, non è vero, ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell'anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell'arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare» (A. Pozzi. Ti scrivo dal mio vecchio tavolo: lettere 1919-1938, a cura di Graziella Bernabò - O. Dino, Àncora, Milano 2014, p.155); o quella del 29 gennaio dello stesso anno, in cui scrive: «[…] non per astratto ragionamento, ma per un’esperienza che brucia attraverso tutta la mia vita, per una adesione innata, irrevocabile, del più profondo essere, io credo, Tullio, alla poesia. E vivo della poesia come le vene vivono del sangue. Io so che cosa vuol dire raccogliere negli occhi tutta l’anima e bere con quelli l’anima delle cose e le povere cose, torturate nel loro gigantesco silenzio, sentire mute sorelle al nostro dolore» (Ibidem, p. 160).
E, infine, basterebbe leggere la sua poesia Un destino, del 1935, in cui, dopo la negazione della sua poesia da parte del professor Antonio Banfi e del gruppo banfiano in genere, Antonia Pozzi sceglie di aderire alla poesia, e quindi all’arte, a prezzo della fatica di tutta la vita, sola e lontana dalla vita degli altri con i quali avrebbe voluto condividerla, perché «Lumi e capanne / ai bivi / chiamarono i compagni» e «In un suo fuoco assorto/ciascuno degli umani / ad un’unica vita si abbandona», mentre a lei non rimane se non «questa che il vento ti disvela / pallida strada nella notte», con la consapevolezza, però, che «[…] sul lento / tuo andar di fiume che non trova foce, / l’argenteo lume di infinite / vite – delle libere stelle / ora trema…». Arte e vita si scontrano in Antonia Pozzi là dove l’arte è guardata con occhi diversi da come la guarda lei: ed è appunto la concezione di arte che le gira attorno a metterla in crisi, e in crisi profonda, dal momento che la differenza viene a toccare le sue relazioni umane e affettive; ma, come ho già detto, Antonia supera questo scoglio con la forza che le viene dal di dentro e che la fa «vivere della poesia come le vene vivono del sangue».
Ci indichi tre poesie che ama molto di Antonia Pozzi e ci spieghi il perché.
OD: Non è facile scegliere tra le molte poesie di Antonia, perciò ne scelgo tre che amo, come ne amo tantissime altre: Preghiera, Ritorno serale, Sera a settembre.
Preghiera è del 1932, l’anno in cui Antonia Pozzi scrive il minor numero di poesie; in compenso tra esse si trovano quelle che più intensamente riflettono il dramma dell’assenza di Dio e, quindi, della sua ricerca, del suo bisogno di Lui. Antonia ha conosciuto Dio in un tempo lontano e poi non lo ha più incontrato veramente, ma solo di riflesso, nelle immagini della natura oppure nel volto dell’amato: «[…] era Dio che parlava in te, che voleva salvarmi attraverso di te. […] Tu sei stato la parola di Dio in me, la promessa della mia redenzione» (Lettera ad A. M. Cervi, 11-15 febbraio 1934, in A. Pozzi, Ti scrivo dal mio vecchio tavolo: lettere 1919-1938, cit., p. 188).Le vicissitudini della vita la tengono in uno stato d’ansia e di vuoto interiore che la rende incapace di scrivere poesia. Antonia, sente che le manca Dio. Antonia riconosce che il Signore è il Dio della vita, è la sorgente stessa della poesia: «il tuo canto segreto». E, mentre non sembra chiedergli cose straordinarie, è invece davvero eccezionale la sua domanda e presume una grande fede: chiedere «una stilla di te» significa credere che Dio è tutto e che lei è tanto povera cosa che una «stilla» sola della sua acqua divina ristoratrice le può bastare per rinascere, per tornare ad essere ancora la “portavoce” del suo «canto segreto», per tornare ad essere poeta.
Ritorno serale, una delle più belle poesie del 1933, prende il via da un ritorno a Pasturo, che conferma in Antonia la coscienza del suo rapporto con il paese di montagna, dove spesso si ritira per riposare e per studiare. La lirica si apre e si chiude con immagini e gesti d’amore: il «nido» e le «ginocchia materne», su cui «appoggiare la fronte»; il «silenzio», che abbraccia e avvolge «nel suo manto le cose» e dona la pace. Antonia, riferendosi a Pasturo, fa uscire dall’ombra la figura della madre, Lina, con due sole parole «ginocchia materne»: un’immagine che fa capire quanto riposo Antonia trovasse in lei, nel suo amore semplice, fatto più di sguardi che di parole; quanta fiducia riponesse in lei, la fiducia che l’ha accompagnata nella sua infanzia. Perciò Pasturo è doppiamente «nido»: luogo di quiete e di silenzio riposante in cui abbandonare le ansie e i pensieri angoscianti, dove la vita trova un riparo, il dolore una possibilità di scioglimento; dove il male non ha luogo; ed è anche la casa, la famiglia, soprattutto la madre.
In Sera a settembre, anch’essa del 1937, come in tante altre poesie, lo sguardo di Antonia è uno sguardo di intenzione, di partecipazione affettuosa, che sarebbe più corretto definire com-passione. In questa lirica la compassione è tutta rivolta verso gente forestiera, guardata male quasi sempre e ovunque dagli abitanti autoctoni: una famiglia di zingari, arrivati a Pasturo chissà da dove. Su di loro si china la tenerezza di Antonia. Ma, prima che si focalizzi su di essi, il suo sguardo si è allargato sul panorama della transumanza, nel quale si allineano e si intrecciano monti e valle, animali, carri e bambini che «s’aggrappano ai carri», per godere del loro dondolio, del loro odore di fieno, della compagnia dei grandi, con i quali sentirsi grandi anch’essi. E quanta energia e scioltezza e vivacità in quell’aggrapparsi: è una conquista, una vittoria. Accanto all’immagine gioiosa dei bambini, un’altra se ne apre, quella delle «rade, calde case illuminate», che mette in rilievo il contrasto fra due condizioni di vita: pochi possono godere del caldo tepore di una casa e della luce che neutralizza il buio della sera di settembre, dando non solo sicurezza e conforto, ma anche visibilità a chi vi abita – una sorta di affermazione sociale. Gli zingari invece vivono «accampati sulle strade», senza tepore, senza luce, senza visibilità sociale, se non quella della loro indigenza, che è, quasi come contrappeso, libertà: libertà nello spazio, libertà dalle convenzioni sociali, libertà di cantare ciò che sono con le loro nenie malinconiche. Qui la tenerezza di Antonia, la sua intima sofferenza si condensa nell’espressione «a me», che assume un valore fortemente affettivo, come a dire: per me, proprio per me «salgono» quelle nenie, a trafiggermi l’anima.
Grazie!
Tiziana Altea
L’intervista integrale è reperibile sul sito www.antoniapozzi.it
IL GRINZONE n.69
Che cosa cerca, ancora, Antonia (2)
Che cosa cerca, ancora, Antonia? seconda parte
“Cercavo i ciclamini fra i rovai”. Antonia Pozzi, come nei suoi versi di ‘Canto selvaggio’, anche nella vita, nonostante il dolore – anzi, proprio perché sa il dolore – cerca la bellezza. Guarda il mondo per quello che è, nel bene e nel male. C’è il “velenoso mondo” (‘Fuga’), ma pure che “l’anima mia di fiore / era fiorita / per tutti i prati / di tutti i paesi” (‘Colloquio’). E poi il suo essere assoluta non significa essere esclusiva. Lei accoglie: attraverso la poesia, con la fotografia, nel cuore. Comprende la complessità dell’esserci, consapevole della propria fragilità e insieme della propria ardente dignità. È inclusiva ed empatica.
Che cosa cerca, ancora, Antonia? Dopo l’intervista a Onorina Dino, questa è la volta di Graziella Bernabò, che con la prima ha curato “Parole. Tutte le poesie”, edito da Àncora.
Chi è oggi Antonia e che cosa trovano oggi i lettori nel suo messaggio? Più specificamente ancora, che cosa dice alle donne Antonia?
GB: Attualmente Antonia Pozzi è considerata non solo come una delle voci più interessanti della poesia italiana degli anni Venti-Trenta, ma anche come una figura in anticipo sui tempi, in quanto precorritrice di una visione della vita e di una sensibilità poetica successive. In effetti le sue poesie – fatta eccezione per alcuni elementi tardosimbolisti e crepuscolari dei primi quaderni, peraltro comprensibili in un’autrice molto giovane, e comunque contemporanei a esiti già molto interessanti – sembrano scritte oggi e parlano con sorprendente intensità al nostro presente. Quali le ragioni di questo suo successo postumo che non accenna a finire, anzi aumenta con il passare del tempo?
Bisogna prima di tutto premettere che, negli ultimi decenni e soprattutto negli ultimi anni, il gusto poetico è ovunque mutato, rispetto sia all’epoca di Antonia Pozzi sia al periodo successivo. Infatti, in relazione alla crescente problematicità della realtà contemporanea, si è ovunque diffuso, di contro alla poesia criptica o agli sperimentalismi linguistici precedentemente in voga, l’interesse per una poesia centrata sui grandi temi dell’esistenza e sul rapporto profondo dell’essere umano con il mondo. Aspetti, questi, centrali nell’intera produzione pozziana. Di fatto, quella di Antonia, è la poesia per eccellenza dell’incontro e della relazione con gli altri e con le «cose sorelle» (Largo). Vi trovano posto i luoghi prediletti – Pasturo, la Zelata di Bereguardo, le periferie di Milano Sud –, l’amore inteso come passione insieme spirituale e fisica, il desiderio inappagato della maternità, la dolcezza dell’amicizia, l’angoscia dell’incomprensione e della solitudine, il miracolo della poesia, una spiritualità di ampio respiro in cui non si avverte scissione tra corpo e anima, finito e infinito. Nelle sue poesie degli ultimi anni entrano poi la denuncia degli orrori delle guerre e l’attenzione ai problemi sociali negati dalla propaganda fascista, ma da lei riscontrati in tutta la loro evidenza nei desolati sobborghi che frequentava con Dino Formaggio, l’ultimo uomo da lei amato.
E tutto questo si traduceva in un linguaggio poetico nuovo per la sua epoca. Antonia Pozzi si poneva infatti al di fuori sia della poetica dell’«assenza» e delle rarefazioni degli ermetici di area fiorentina – sgradite a lei come ad Antonio Banfi, del cui gruppo faceva parte –, sia della disciplinata e composta «poetica degli oggetti» che stava alla base di quella che Luciano Anceschi, critico di area banfiana, avrebbe definito in seguito «linea lombarda». La sua era piuttosto una poesia del radicamento forte e vivo nel reale, che si realizzava – pur nell’ambito di una rigorosa elaborazione formale e di una raffinatezza stilistica tanto più notevole quanto meno esibita – attraverso un asse metonimico di associazioni logiche estremamente sensoriali, quindi di immediata comunicatività. In questo modo Antonia superava la frattura tra parola e corpo che altri poeti del suo tempo si imponevano come una sorta di dovere, e riusciva a esprimere un meraviglioso e libero immaginario di donna. Questo però doveva apparire sconcertante all’interno del suo ambiente culturale, in cui le donne erano accolte volentieri, ma contemplate essenzialmente nei loro aspetti di omologazione a un pensiero fortemente razionalista che, sebbene estraneo agli squallidi miti fascisti e aperto invece alla più moderna e interessante filosofia europea, restava ancora chiuso, per ovvie ragioni storiche, all’alterità femminile. Non a caso la vera e propria riscoperta di Antonia Pozzi in Italia e all’estero (che è andata molto oltre la valorizzazione di Montale avvenuta negli anni Quaranta) è iniziata a partire dagli anni Ottanta del Novecento, in concomitanza con una crescente valorizzazione della scrittura delle donne, finalmente apprezzata per se stessa, quindi non più soltanto nell’ottica banale di una subordinazione o di una assimilazione a quella maschile.
Per esempio, oggi possono dirci molto poesie del 1931 come La porta che si chiude e Rossori, e del 1933 come Il volto nuovo e Il porto, dove, con fisica concretezza, trova espressione quel senso di estraneità a se stessa e alla vita che è costretta a sperimentare una donna a cui viene impedito di esprimere il suo più vero essere. E affascinante appare – specialmente nelle poesie più mature di Antonia, come Radici, Tempo, Le montagne – la sua visione degli amati monti di Pasturo, che si risolve in immagini, da un lato, ancestrali e mitiche, dall’altro, familiari, materne e protettive. Infatti queste montagne, con cui lei mostra di avere un rapporto privilegiato, custodiscono nel loro «grembo», insieme alla vita sotterranea e segreta che incessantemente si rinnova, il suo stesso «stelo / di pallide certezze» (Radici); e per tutti sono «madri» silenziose e forti che «maturano figli / all’assente» nell’«infinita speranza di un ritorno» (Le montagne). Su un piano più generale, è di grande impatto nei versi pozziani la rappresentazione della terra-madre e della sua rigogliosa vegetazione, soprattutto dei suoi moltissimi e variegati fiori, che appaiono insieme straniati e carnali, nell’esprimere un ardente eros di donna rivolto sia all’uomo amato sia alla vita tutta. Penso, per fare solo pochi esempi, alle «camelie bianche rosse ridenti» della poesia I fiori; all’«irto fiore» di Nevai, ai «mughetti che crescono senza tregua» di Tempo e alle «salvie rosse» che, in Voce di donna, gridano l’amore e il dolore della sposa di un soldato lontano per la guerra.
Per concludere, parafrasando il titolo di quest’ultima poesia, potremmo dire che quella di Antonia Pozzi è un’originale ed energica «voce di donna», come tale apprezzata e amata oggi da tante donne che vi si riconoscono, ma anche da quegli uomini – e non sono pochi – che si dimostrano capaci di valorizzare, nella vita come nella poesia, la «differenza» femminile, vedendola come una ricchezza per tutti.
Bernabò, lei ha scritto del coraggio della poesia di Antonia Pozzi. Perché?
GB: Ho scritto di questo in riferimento al 1935, un anno per lei difficile su molti piani. Prima di tutto per la fine della speranza d’amore con il compagno di studi Remo Cantoni, che ricambiava il suo sentimento solo con una affettuosa amicizia. In secondo luogo per il suicidio dell’amico Gianni Manzi e per la decisione della sua amica più cara, Lucia Bozzi, di entrare in convento. Ma su Antonia, che da sempre aveva fatto della poesia una fondamentale ragione di vita, anzi il cuore della sua stessa esistenza – come si vede dalla sua corrispondenza con l’amico poeta Tullio Gadenz –, pesò moltissimo anche la netta sottovalutazione dei suoi versi all’interno del gruppo banfiano. In realtà, dietro tale giudizio, non c’era alcuna malevolenza, tanto più che Antonia Pozzi era molto benvoluta per la sua gentilezza e generosità e godeva di sicura stima come intelligente e dotata allieva di Banfi, che le propose addirittura la pubblicazione della tesi di laurea sull’apprendistato letterario di Flaubert. In questo ambiente fortemente razionalista risultava invece difficile accettare la sua poesia centrata sull’emozione e sulla relazione, cioè su aspetti oggi ampiamente rivalutati, perfino su un piano filosofico, ma in quel momento considerati erroneamente come forme di sentimentalismo e di debolezza da superare con uno sforzo di volontà. Antonia visse di conseguenza momenti di grande scoraggiamento, anche se in fondo reagì proprio continuando a scrivere versi, e versi nei quali non rinunciava a esprimere quella calda e totale apertura al mondo che dagli amici era vista come una forma di «disordine», secondo quanto lei stessa scriveva nel diario il 4 febbraio 1935 (A. Pozzi, Diari e altri scritti, Àncora, Milano 2018, p. 87). Insomma volle coraggiosamente rimanere se stessa come donna e come poeta, pur sapendo che questo avrebbe comportato per lei un’incomprensione esterna. Lo si vede alla fine di Un destino, una poesia scritta emblematicamente il 13 febbraio 1935, giorno del suo compleanno : «[…] e se nessuna porta / s’apre alla tua fatica, / se ridato / t’è ad ogni passo il peso del tuo volto, / se è tua questa che è più di un dolore /gioia di continuare sola / nel limpido deserto dei tuoi monti // ora accetti d’esser poeta».
Lei ha avuto modo di raccogliere diverse testimonianze su Antonia. Dell’ultima fase, quella dei “tempi bui”, che cosa le hanno detto?
GB: Il periodo tra il settembre e l’inizio del dicembre 1938 (Antonia volle togliersi la vita il 2
dicembre e morì il giorno successivo) fu per lei molto difficile. Prima di tutto per il terribile momento storico; infatti l’allineamento di Mussolini a Hitler aveva portato a un ulteriore incupimento della già pesante dittatura fascista. E, soprattutto, era iniziato dal mese di settembre il varo delle nefande leggi antiebraiche che, tra l’altro, avevano spinto a fuggire dall’Italia i suoi carissimi amici Paolo e Piero Treves con la loro madre Olga, e che Antonia, senza ombra di dubbio, visse con grande angoscia. Lo si vede in una sua lettera del 27 settembre 1938 a Dino Formaggio, che, prima di riconsegnarla a Roberto Pozzi, ne ricopiò questo frammento, di recente pubblicato: «E soprattutto siamo stufi di prepotenze, di soprusi, di aggressioni che sui giornali diventano “sacrosanti diritti”, degli urli della folla anonima ridotta allo stato di bestia cieca, della repressione barbara e retrograda di ogni voce umanitaria, del quotidiano capovolgimento della realtà di fatto» (in D. Formaggio, Amo la tua anima. Lettere ad Antonia Pozzi, con Altre Lettere a Dino di Antonia Pozzi, a cura di Giuseppe Sandrini, con la collaborazione di Lucia Pretto, alba pratalia, Verona 2016, p. 95). Lo attestano inoltre le sue struggenti lettere a Paolo Treves del 3 ottobre e del 5 novembre 1938 e un’affermazione contenuta nell’ultima lettera alla famiglia, di cui il padre trascrisse solo alcuni passi, dopo averla bruciata: «Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite…» (A. Pozzi. 1° dicembre 1938, in Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938, cit., Milano 2018, p. 314).
È poi indubbio che su Antonia abbia pesato anche il venir meno della speranza di un futuro d’amore con Dino Formaggio, come mi fu accennato dalla sua amica Elvira Gandini e dallo stesso Formaggio, che la incontrarono a un concerto alla vigilia del suicidio. Ma questo, di per sé, non sarebbe stato un sufficiente motivo della sua morte volontaria, se la sua angoscia finale non si fosse inscritta in una malinconia esistenziale che datava fin dall’adolescenza e in una storia di dolorose sconfitte affettive: la prima per l’opposizione del padre al matrimonio con il professor Antonio Maria Cervi, la seconda per l’amore non corrisposto nei confronti di Remo Cantoni. Senza contare che la delusione per la fine del rapporto con Dino Formaggio riguardava per lei la fine, oltre che di una storia sentimentale, di un intero progetto di vita basato su un forte impegno sociale, etico e, in embrione, perfino politico: insomma di «una vita vissuta tutta dal di dentro» (A. Pozzi, Lettera a Paolo Treves del 23 ottobre 1938, in Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938, cit., p.310) che aveva a lungo sperato di condividere con lui.
Quali versi pozziani possono declinarsi e stagliarsi anche nel buio del nostro tempo e perché?
GB: Una poesia che mi viene in mente, a proposito del buio del nostro tempo, in cui continuano a perpetuarsi i misfatti della Storia con la “S” maiuscola – come la definiva un’altra grande donna, Elsa Morante –, è La Terra, dell’8 settembre 1937, quindi di un momento storico in cui imperversavano nel mondo terribili conflitti. Qui lo sgomento per le guerre sino-giapponese e di Spagna, con un espressionismo lessicale insolito nella lirica italiana degli anni Trenta, percorre non solo l’io poetante, ma anche tre luoghi in quel periodo particolarmente frequentati e amati da Antonia Pozzi – il litorale adriatico, la Val d’Ayas e Pasturo – ambienti di per sé tranquilli ma straniati dalla percezione di queste immani tragedie. Antonia ne affida l’annuncio al «vecchio gobbo», il mendicante indovino che ogni settembre giungeva alla fiera pasturese: « […] e a mezzodì s’avanza il vecchio gobbo, / canta sui ciotoli [sic] e per le donne accorse/ fra i trilli del suo timpano d’argento: “È fiorito il bambù, dopo cent’anni. / In riva a tutti i mari e ne morrà. Coll’autunno si secca la foglia, / a oriente scorron fossati di sangue, / vidi le braccia di migliaia d’uccisi / penzolar sull’abisso / ad occidente”». In questa poesia, come nella Storia di Elsa Morante, il ripudio della guerra non nasce dunque da un’astratta presa di posizione ideologica ma da una concreta sofferenza, vissuta dall’autrice nella propria carne e condivisa con uno schietto mondo popolare.
Inoltre voglio ricordare una poesia molto importante del 1938, Via dei Cinquecento, dove Antonia, con una sofferta partecipazione emozionale e con un linguaggio volutamente schietto e crudo, parla di quello che trovava nella «casa degli sfrattati», situata appunto in quella strada milanese di estrema periferia, smentendo così l’immagine edulcorata che la propaganda fascista trasmetteva dei ceti più indigenti: «[…] la fame non appagata, / gli urli dei bimbi non placati, / il petto delle mamme tisiche / e l’odore –/ odor di cenci, d’escrementi, di morti – / serpeggiante per tetri corridoi –[…]». Mi sembra che questa sua empatia verso l’umanità offesa possa acquistare un profondo significato in un’epoca, come quella attuale, di crescente indifferenza e, talora, di vera e propria ostilità nei confronti di tante persone provate dalla fame, dalle guerre e da altre forme di violenza, e continuamente mortificate nella loro dignità.
Grazie!
Tiziana Altea
*Intervista integrale pubblicata sul sito www.antoniapozzi.it
IL GRINZONE n.71
Antonia Pozzi: la fotografia e l'incontro con il mondo
Antonia Pozzi: la fotografia e l'incontro con il mondo
Intervista a Ludovica Pellegatta
Antonia Pozzi viene sempre più apprezzata, oltre che per la sua poesia, anche per la sua fotografia. Hanno contribuito a questa scoperta e valorizzazione gli studi e il lavoro di Ludovica Pellegatta.
Pellegatta si occupa della fotografia di Antonia Pozzi dal 1998. È lei ad aver realizzato la prima catalogazione digitale dell’Archivio fotografico pozziano e diverse mostre.
Tra le sue recenti pubblicazioni: ‘Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima. Antologia fotografica, ediz. ampliata e curata insieme a O. Dino (Edizioni Àncora, Milano, 2018); ‘Antonia Pozzi. Sopra il nudo cuore’, catalogo della mostra ‘Sopra il nudo cuore. Fotografie e film di Antonia Pozzi’, curata insieme a G. Calvenzi (Silvana Editoriale, Milano, 2015); ‘…nelle immagini si vede la mia anima…Antonia Pozzi. Viaggio in Liguria’ (Comune di Camogli, 2014).
Questa intervista riprende e aggiorna quella postata sul sito www.antoniapozzi.it in relazione alla mostra “Sopra il nudo cuore. Fotografie e film di Antonia Pozzi”, curata da Pellegatta e Calvenzi.
Perché hai scelto, per la tua tesi di laurea in Estetica, lo studio delle fotografie di Antonia Pozzi?
Mi sono laureata all’Università degli Studi di Milano in Lettere Moderne nel 2000. Negli ultimi anni di facoltà ho avuto la fortuna di seguire l’insegnamento di Estetica del Prof. Gabriele Scaramuzza, allievo del filosofo Dino Formaggio, figura chiave della ‘Scuola di Milano’ di Antonio Banfi, oltre che della vita e dell’opera di Antonia Pozzi. Per la mia tesi di laurea desideravo fare una ricerca sulla fotografia come mezzo tecnico e artistico e il Prof. Scaramuzza mi propose di fare una tesi sulle fotografie della Pozzi, all’epoca ancora quasi del tutto sconosciute. Ho così iniziato, nel 1998, la mia relazione postuma con Antonia, avvenuta attraverso le sue immagini prima ancora che le sue parole. Ho passato più di un anno a guardare, riprodurre, catalogare centinaia di fotografie, alcune raccolte in album fotografici dalla stessa Pozzi, altre sparse tra l’Archivio Pozzi e l’Archivio Dino Formaggio. All’amico la poetessa lasciò, come vero e proprio lascito testamentario prima del suicidio, una parte fondamentale della sua produzione fotografica.
Qual è stato il primo effetto – a caldo – di queste fotografie?
Il primo effetto è stato come vedere uno specchio opaco, uno specchio che riflette un ritratto al negativo di una vita che nella sua epoca non trovò scampo: il ritratto di come Antonia avrebbe voluto la sua ‘vita sognata’.
Com’è stato l’incontro con Antonia poeta?
Leggendo per la prima volta le poesie di Antonia Pozzi, mi colpì la sua capacità di dare vita a una singolare compresenza di pathos, simbolismo ed essenzialità, compresenza che spesso si ritrova anche nelle sue fotografie dell’ultimo periodo sul mondo contadino.
Quanto Antonia ricerca la bellezza attraverso la fotografia? E come si concilia questa ricerca con quella del ‘nocciolo duro’ delle cose?
La ricerca della bellezza nella fotografia di Antonia Pozzi si esprime come ricerca dell’anima delle cose. I temi più significativi e ricorrenti sono gli stessi a cui la poetessa dedica molti versi, temi attraverso i quali dà voce a un desiderio profondo di vita autentica: il particolare umile, i luoghi più appartati della natura, le case e le abitudini di paese, la vita semplice dei contadini, le fiere di quartiere e dei piccoli borghi rurali. Contemplazione e nostalgia rappresentano le grandi atmosfere della sua fotografia, come se, attraverso l’inquadratura fotografica, Antonia rivolgesse al mondo un ultimo sguardo. É questo sguardo ultimo che permette la rivelazione del senso, della soglia, della bellezza.
Quali sono pregi e limiti della fotografia pozziana?
Nel 1935, nella sua tesi di laurea su Flaubert, Antonia Pozzi scrive che ‘L’arte è sempre un uomo singolo, l’arte è sempre un aspetto della realtà riflesso da un occhio umano; l’oggettività assoluta esiste solo nelle macchine fotografiche’. L’approccio iniziale di Antonia alla fotografia risente del limite di questa concezione, ma negli anni il mezzo fotografico diventa per lei uno strumento per raccontarsi necessario tanto quanto la scrittura, diventa anzi un’esperienza, un gesto con cui cerca di dare voce al bisogno di un incontro autentico con il mondo.
Allora per Pozzi nella fotografia l’arte non si può esprimere? E quanto, di fatto, riuscirebbe a essere oggettiva nei suoi scatti?
La fotografia è e rimane per la Pozzi, anzitutto, documento, traccia di un vissuto reale, un incontro, un luogo, un volto. La macchina fotografica è per lei uno strumento di conservazione contro l’oblio, che, tuttavia, in Antonia è qualcosa di radicalmente altro dalla semplice dimenticanza. L’oblio per la Pozzi rappresenta una dimensione morale radicale, una deriva etica, l’atto non compiuto, la schiavitù dello spirito e della coscienza. Nelle sue immagini più significative, in particolare in quelle dell’ultimo periodo, la volontà di ricordare, di rimediare all’oblio, esprime una ricerca di fondamento nell’esistenza.
Antonia ha lasciato oltre 4000 fotografie e innumerevoli negativi. Oltre al delinearsi sempre più preciso di una poetica, c’è un cambiamento nei soggetti ripresi e ci sono delle costanti?
Antonia Pozzi inizia a fotografare nel 1929, a 17 anni, molto probabilmente per influenza del padre Roberto, che fu un appassionato fotografo e viaggiatore. Si appassiona alla macchina fotografica anche per il desiderio di sperimentare un mezzo espressivo ancora poco diffuso, per quanto negli anni Trenta la fotografia fosse ormai parte integrante della vita quotidiana borghese, in particolare nella forma dell’album fotografico. Nei primi anni la poetessa associa la fotografia soprattutto ai momenti di svago e vacanza: sono infatti ricorrenti nei primi album le immagini di viaggi e delle ascensioni alpine. Col tempo però si precisa una poetica che rivela una particolare attenzione per gli aspetti più umili e dimessi: la montagna, le barche solitarie, le scogliere, gli alberi, i boschi, i piccoli borghi rurali e il mondo contadino, la periferia, i bambini…
Hanno fondamentale importanza le implicazioni con il progetto di romanzo storico a cui la poetessa si dedica attivamente nell’estate del 1938. In autunno compie delle vere e proprie ‘spedizioni fotografiche’ a Pasturo e alla Zelata di Bereguardo sul Ticino, alla ricerca di quel ‘senso di umana semplicità’ della cultura contadina lombarda che avrebbe dovuto rappresentare il cuore del romanzo. Lo scopo di queste spedizioni è conoscere personalmente il paesaggio e farsi una cultura agricola: fotografa l’aratura dei campi, la fienagione, la battitura del grano, le risaie, la vita quotidiana contadina. Torna anche espressamente in alcuni luoghi ‘per fare delle fotografie contro luce’, a dimostrazione di come la Pozzi avesse ormai raggiunto una chiara consapevolezza della fotografia come linguaggio e mezzo artistico.
Qual è, secondo te, la fotografia più bella scattata da Antonia Pozzi?
L’immagine dei bambini mentre giocano nei campi nella periferia di Porto di Mare, 1938.
E quella che ti commuove di più, e perché?
Il ritratto del cane e del maiale nella stalla di Pasturo, 1937. Mi commuove lo sguardo amorevole di Antonia verso questa umile scena di vita contadina, il fil di ferro che fa da guinzaglio al cane, il dialogo silente tra gli animali del pastore.
Vuoi dirci qualcosa sui filmini girati da Antonia?
I pochi filmati per ora restaurati dell’Archivio Pozzi mostrano la poetessa quasi sempre con la macchina fotografica al collo (molto probabilmente una Folding Pocket Kodak o una Leica). Vedendoli si percepisce immediatamente come la macchina fotografica fu per la Pozzi ben più di un semplice svago: una compagna per la vita inseparabile con cui relazionarsi al mondo.
Tiziana Altea
IL GRINZONE n.73