Antonia Pozzi e gli uomini di montagna



Joseph Pellissier

 

Dopo aver parlato di colui che fu la prima guida alpina di Antonia, Oliviero Gasperi, presentiamo ora Joseph Pellissier, che accompagnò la poetessa nell’estate del 1934, quando lei era ospite della famiglia Giussani al Breil. E lo facciamo accompagnati dalle parole della figlia Anna, in un’intervista di qualche tempo fa.

 

Quando giungo ad Ivrea, della signora Anna conosco solo la voce, sentita più volte al telefono; ma mi accoglie con una tale freschezza e simpatia che poco dopo, seduti in soggiorno, sembriamo amici da tempo. Le chiedo, naturalmente, di suo padre e il racconto è un intreccio di storia familiare lungo almeno tre generazioni.
«Mio padre passava con la famiglia Giussani tutta l’estate, tre mesi interi, e insieme hanno salito quasi tutte le montagne d’Italia. Non so quando questo legame sia iniziato: fa parte dei miei primi ricordi d’infanzia. Del resto, l’avvocato fu padrino di battesimo di mio fratello maggiore, che proprio per questo venne chiamato Camillo. La famiglia milanese fu sua cliente fino a metà degli anni Trenta, quindi almeno per quindici anni. Ricordo che per Natale ci mandavano una scatola con un enorme panettone (per noi una rarità) e anche qualche vestito».

Mi dispone davanti parecchie foto di Joseph in montagna con la famiglia di Camillo Giussani. «I figli, un po’ più grandi di me, li ricordo bene. Il loro papà no».

Provo a tornare indietro negli anni, a scavare nei racconti familiari prima che nei ricordi.

Joseph nasce nel 1881 ed è il primo della famiglia a dedicarsi all’alpinismo. È anzi uno dei primi a fare della guida alpina un’attività totalizzante: «Fuori stagione si dedicava alla vigna, alle due mucche che avevamo nella nostra casa di Cheneil e sapeva fare ogni lavoro, specie di carpenteria. Ma il suo mestiere era la guida».
Sul piano alpinistico la famiglia Pellissier è legata a doppio filo alla famiglia Carrel. Il suo maestro è Jean Joseph Carrel. Non è un caso se i due sono insieme alla famosa prima invernale del Cervino per la Cresta del Leone (sia in andata che al ritorno), dall’1 al 3 marzo 1907 con Mario Piacenza. A quel tempo Joseph è “portatore”.
Se a Jean Joseph Carrel deve la sua arte, restituisce la fortuna facendo da maestro al figlio di lui, Luigi, il mitico “Carrellino”. Proprio a Luigi, di vent’anni più giovane, affiderà poi il proprio figlio “Camillotto”, quando sarà ormai troppo anziano per certe imprese. «Anche se mio padre salì il Cervino anche a più di settant’anni», commenta – giustamente orgogliosa – Anna.

Dopo i tre anni di regolamentare ferma militare, Joseph viene richiamato in guerra, nel 4° Reggimento Alpini. A quell’epoca è ormai “guida”. Anna mi sa dire poco, perché «mio padre non raccontava molto delle sue imprese. Per lui tutto era normale. Senz’altro non fu utilizzato come guida militare alpina. Se ricordo bene era nel Battaglione “Aosta”; trascorse quasi tutto il tempo in trincea, sul fronte orientale, ma anche sulle Tofane. Era stato richiamato insieme al coetaneo Joseph Gaspard, con cui era amicissimo, benché fossero di vedute politiche diverse. E proprio in quegli anni morì la nonna [la madre di Joseph] di “spagnola”».

 

Joseph si sposa abbastanza tardi, nel 1923 (ha già 42 anni) con Giulia Pession. L’anno dopo nasce Camillo. Poi Anna, nel 1927 e Carlo nel 1930.

Nell’estate 1934 al Breil è ospite della famiglia Giussani Antonia Pozzi, allora ventiduenne. Con Joseph effettua un paio di escursioni che così racconta all’amica Lucia Bozzi: «Al Breil rimasi fino al 10 di agosto: venti giorni molto intensi, benché a volte tetri e minacciosi […]. Molto in alto fui soltanto due volte: in una giornata splendente sulle creste del Fürggen, che è facile facile, ma in uno scenario incomparabile; e in una orrenda giornata di nebbia e neve, sulla Becca di Guin, che non è difficile, ma dove ci si prova abbastanza sulla roccia. Giornata orrenda; ma siccome ero sola con Pellissier, la bravissima guida del Cervino, e dormimmo al rifugio dei Jumeaux (per la strada ci eravamo colti dei legni di rododendro morti per accendere il fuoco – Pellissier mi preparò la minestra, mentre io guardavo il tramonto e le valli lontane, azzurre delle prime ombre, e pensavo come è bella, com’è dolce la terra quando s’addormenta), credo che me ne ricorderò a lungo. Alla sera accesero dei gran fuochi, giù a Breil, ed anche noi incendiammo, su di una roccia, un fascio di paglia e le scintille volavano giù nella notte […]».

A Pellissier la giovane poetessa dedica, in maniera implicita, la bellissima poesia “Rifugio” datata 9 agosto 1934. Essa illumina bene il genere di relazione instaurata, caratterizzata da un profondo senso di rispetto e di consonanza spirituale. Rivelatore è l’inciso «nel silenzio». E vi è un forte nesso tra silenzio e ascolto e sguardo: attitudini dell’anima contemplativa. 

La faccio leggere ad Anna, che un po’ si commuove. «In questi versi rivedo intero mio padre. L’apparenza esterna era un po’ burbera, poteva mettere soggezione. Ma in realtà era sempre dolce e affettuoso, in ogni occasione sapeva trovare la parola giusta, la parola buona. Aveva una signorilità e una saggezza innata, pur non avendo seguito studi regolari. E poi è vero: ogni volta che papà era alla capanna del Cervino, faceva un piccolo fuoco e noi accendevamo un gran fascio di sterpi: era un modo di sentirci vicini».

 

L’anno dopo Joseph è contattato da Alberto M. De Agostini, il missionario salesiano che da venticinque anni andava esplorando la Patagonia. Con lui l’antico allievo – e ormai amico e collega affermato – Luigi Carrel. Nonostante l’ostinato mal tempo, l’obiettivo dell’esplorazione del versante nord-orientale del Fitz Roy è raggiunto. Benché debbano rinunciare a numerose delle ascensioni progettate, compiono comunque la prima ripetizione del Cerro Elettrico e le prime assolute al Monte Pollone e alla Gorra Blanca. La spedizione, iniziata nel dicembre 1935 si conclude il 24 febbraio dell’anno successivo. Nei primi giorni di permanenza in America Latina le due guide erano state intervistate dalla rivista “Ahora”. Eccone uno stralcio: «Entrambi sono giovani, forti, camminano con un leggero ondeggiare, inavvertito, obbedendo al ritmo fisico che impone la necessaria elasticità montanara. Pellissier è alto, asciutto, affilato in volto, gli occhi indagatori. Parla lentamente, come se fosse lontano da quanto lo circonda».

Negli anni successivi si fanno più frequenti le occasioni in cui si porta sulle vette Camillo. «Mio padre lo adorava. Camillotto era minuto di corporatura, ma già dava a vedere le qualità che lo avrebbero fatto diventare un fortissimo rocciatore. Nel vederlo papà commentava orgoglioso: “Si arrampica come uno scoiattolo”. Un giorno del 1939 gli disse: “Oggi ti porto in vetta al Cervino”. Io protestai dicendo che anch’io volevo andare. Di fronte al suo rifiuto dissi che sarei andata almeno fino alla capanna del Cervino; se poi fossi stata troppo lenta, li avrei aspettati lì. La giornata era bellissima e io camminai bene. Dormimmo alla capanna, ma al mattino il cielo era tutto coperto. Papà disse: “Andiamo almeno fino alla Spalla” e, una volta su, aggiunse: “Beh, ormai ci siamo”. In realtà dalla Spalla alla vetta fu vera tormenta, ma arrivammo. Affettuosamente Camillo protestava perché io vi ero salita più giovane di lui: avevo 12 anni e lui già 15».

 

                


«Papà voleva che studiassimo. Lo ricordo affermare convinto: “Venderei tutto, pur di farvi studiare”. Aveva anche in questo prudenza e saggezza. Camillotto frequentò il liceo classico dai salesiani; per mantenersi, faceva l’inserviente. Superò l’esame di maturità, ma poi… il richiamo della montagna fu troppo forte! A vent’anni era il più giovane “portatore” in attività. Neanche io continuai gli studi: mi era iscritta alle scuole magistrali, ma poi, con il precipitare della guerra dovetti interrompere; poi venne l’impegno sportivo». Per dieci anni, infatti, Anna è stata nella Nazionale italiana di sci, ottenendo parecchi podi («Ero l’eterna seconda») e conquistando il titolo nella Discesa libera del 1952. E poi le Olimpiadi di Cortina e i Mondiali…
«Papà non ha mai fatto il maestro di sci, anche se li sapeva utilizzare molto bene. Aveva imparato negli Alpini. Il giorno prima di imbarcarsi per la Patagonia scese a Milano con Camillo e gliene comprò un paio. Li usavamo una discesa a testa» racconta Anna. E poi, con un sorriso sornione e affettuoso continua: «Quando eravamo vicino a casa chiamavamo la mamma perché ci vedesse; ma quando Camillotto sapeva di essere visto dalla mamma… cadeva sempre!».

«Così imparai da sola. Un giorno mi videro quelli dello Sci Club di Cervinia e mi proposero di diventare dei loro. Per parecchi anni ho fatto anche la maestra di sci. Ho smesso dopo le Olimpiadi del 1956, quando mi sono sposata. Poi sono venuti i cinque figli…».


E l’arrampicata?, le chiedo. «Le vette della nostra zona le ho fatte tutte, con papà o con Camillo. Con loro sarei andata ovunque. La più importante fu la prima femminile al Cervino per gli strapiombi del Fürggen. Era il tardo autunno del 1947. Mio fratello aveva saputo da Luigi Carrel che qualche giorno dopo avrebbe accompagnato una signorina per quella via e corse a dirmi che dovevo andare prima io. Ero reduce da una frattura a un piede e mi faceva ancora male, ma strinsi i denti. Agimmo subito: non c’era tempo da perdere. Con noi c’era anche nostro cugino Arturo. Carrellino aveva spiegato a mio fratello ogni segreto della via e infatti non sbagliammo di un centimetro. Mio padre era a lavorare nella vigna e non seppe nulla finché, rientrando a casa, qualcuno si complimentò con lui per la nostra impresa. Ci fece una solenne reprimenda, ma ormai era fatta».
«Negli ultimi anni – conclude Anna – amava sedersi fuori dalla nostra baita, nella conca di Cheneil. Era molto gioviale, parlava con tutti, raccontava, dava spiegazioni. Tutti lo conoscevano: era molto benvoluto. Aveva un fortissimo senso della famiglia. E infatti per lui fu un colpo tremendo quando, in pochi mesi, morirono entrambi i miei fratelli: Carlo in un incidente automobilistico, Camillotto sulla Dent d’Hérens. Era il 1965.
Aveva un rapporto tutto particolare con la mamma. Ricordo ancora come si tenevano affettuosamente per mano, in questo stesso salotto, a 90 anni compiuti!
».


Joseph Pellissier si spegne nel 1972, a 91 anni.

 

                                                                                 Marco Dalla Torre

 

 

 IL GRINZONE n.51