IL PITTORE ALDO CARPI A PASTURO


Visitando le chiese del nostro territorio, si possono fare interessanti ricognizioni artistiche, spesso trascurate o dimenticate anche quando si tratti di opere di notevole livello, che portano la firma di artisti che hanno lasciato un segno rimarchevole nella storia dell’arte. La Chiesa parrocchiale di Pasturo conserva due grandi tempere eseguite nel 1939 da Aldo Carpi, pittore tra i più rappresentativi del Novecento italiano: due dipinti che meriterebbero maggiore attenzione sia per l’importanza del loro autore e sia perché legati alla memoria di una luminosa figura della letteratura italiana del Novecento, Antonia Pozzi.

Nato a Milano nel 1886, Aldo Carpi seguì i corsi dell’Accademia di Brera sotto la guida di Cesare Tallone e di Achille Cattaneo. Le sue prime prove, che risalgono agli anni immediatamente precedenti la Grande Guerra, sono ancora improntate a uno stile tradizionalista, nel solco della pittura ottocentesca, con alcune escursioni simboliste. Nel 1914 si arruola volontario nell’esercito italiano impegnato nel conflitto e durante gli anni di guerra realizza un gran numero di litografie relative ai combattimenti in Albania e in Serbia, e anche una serie di disegni di soggetto navale eseguiti nei mesi in cui fu imbarcato sulle navi che percorrevano l’Adriatico. Dopo un breve periodo in cui sente l’influenza della pittura “chiarista”, evidente in alcune bellissime marine veneziane, Carpi elabora un suo linguaggio che risente della lezione di quel movimento fecondo e felice che va sotto il nome di Novecento, divenendone uno dei più noti esponenti. Nel 1930 ottiene la cattedra di pittura a Brera e l’insegnamento lo assorbe, pur non abbandonando mai l’attività di pittore. La sua militanza antifascista gli varrà la deportazione nel campo di concentramento a Mauthausen prima e a Gusen successivamente. Una esperienza tragica che lo segnerà nel profondo e che racconterà in una serie di disegni editi nel 1971 sotto il titolo “Diario di Gusen”. Era stato arrestato a Mondonico, in Brianza, dove si trovava sfollato nei primi anni di guerra.

Fu amico di Emilio Gola, il grande pittore caposcuola del naturalismo lombardo, che dimorava nella vicina villa di Olgiate, e maestro di Ennio Morlotti che collaborò con Carpi nella realizzazione delle due tempere collocate a Pasturo a fianco dell’altare. Queste due opere furono commissionate al pittore dall’avvocato Roberto Pozzi e da sua moglie, donna Lina Cavagna Sangiuliani, in ricordo della figlia Antonia, la finissima poetessa che si era tolta la vita l’anno precedente, ancora in giovane età. Antonia amava questa terra valsassinese, dove la sua famiglia, milanese, soggiornava l’estate nella bella casa non lontana dalla chiesa, già proprietà dei nobili Marchioni, antica famiglia pasturese. Vi era giunta la prima volta ancora bambina, nel giugno del 1918, quando i genitori decisero di acquistare, per farne la residenza di campagna, la casa Marchioni. Antonia si affeziona subito a questi luoghi intatti nella loro autenticità, colmi di un fascino che le pendici della Grigna rendevano unico, specialmente per una persona come lei che amava scalare le montagne, ascendere alle loro cime alla ricerca dell’assoluto, presenze costanti nella sua poesia: Occupano come immense donne / la sera: / sul petto raccolte le mani di pietra / fissan sbocchi di strade, tacendo / l’infinita speranza di un ritorno. E in una lettera del 1935 diretta all’amico Remo Cantoni parla con accenti affettuosi di questi luoghi legati alle sue vacanze estive: Quando dico che qui sono le mie radici non faccio solo un’immagine poetica. Perché ad ogni ritorno fra questi muri, fra queste cose fedeli e uguali, di volta in volta ho deposto e chiarificato a me stessa i miei pensieri, i miei sentimenti più veri. Antonia era una ragazza moderna, amava il tennis, le scalate, e aveva una fitta rete di amicizie, perlopiù compagni di università. Si laurea con Antonio Banfi, l’illustre professore di estetica, con una tesi su Flaubert. Vinta dal “male di vivere”, alla continua ricerca di una serenità e di un appagamento esistenziale che il destino sembrava negarle, Antonia si lasciò alle spalle l’agiatezza, l’affetto dei genitori e dei molti amici, e volle concludere i suoi giorni nella verde età dei suoi ventisei anni, attendendo la morte tanto invocata adagiata su un prato nelle vicinanze della abbazia di Chiaravalle. Ciò che mi è mancato, scrive nella lettera-testamento indirizzata ai genitori, è stato un affetto fermo, costante, fedele, che diventasse lo scopo e riempisse tutta la mia vita…E tutta la sua poesia ci parla del disagio esistenziale che la soffocava, del bisogno d’amore e della speranza di una maternità che le “riempisse la vita”. Le sue liriche, in cui ritroviamo echi della grande poesia europea del Novecento, da Rilke a Saba, furono apprezzate da una delle voci più alte della poesia italiana del secolo scorso, Eugenio Montale, che di lei scrisse, nella bella prefazione alle sue poesie, nel 1948: “anima di eccezionale purezza e sensibilità, che non potè reggere al peso della vita”. E più avanti: “Il senso critico, ch’ella possedeva in misura rara e che stava avviandola a esperienze e a impegni più penetranti, la sorresse anche nelle sue prove di adolescente, le permise di toccare un punto, un punto solo di evidenza, di autenticità, oltre il quale tutto, anche per lei, sarebbe stato da ricominciare”. Oggi l’opera poetica di Antonia è considerata fra le più interessanti e intense del Novecento italiano ed europeo e si colloca a pieno diritto nel solco di quella “linea lombarda”, teorizzata da Luciano Anceschi, cui appartiene anche un caro amico di Antonia, il poeta luinese Vittorio Sereni. In un suo verso, Antonia scrive: “Per troppa vita che ho nel sangue, tremo”. Parole inquietanti, che ci dicono del tormento interiore, dell’intimo subbuglio al quale il suo animo era costretto a soggiacere, della morbosa sensibilità che le impediva di accettare la vita così come le si presentava, delle costrizioni e dei condizionamenti che le derivavano dal milieu cui apparteneva e dall’intransigenza autoritaria del padre che non seppe comprendere l’anelito di libertà di questa sua ragazza anticonformista ed esuberante, e che regolarmente le impediva di legarsi a uomini che non appartenevano alla sua classe sociale, nonostante si trattasse di persone perbene e di alto valore intellettuale.

In ricordo di questa loro figlia tanto sfortunata, i coniugi Pozzi decisero di donare alla chiesa del paese così amato da Antonia, tanto da voler essere sepolta nel suo piccolo cimitero ai piedi delle montagne, due dipinti affidati all’arte di Carpi. Sono due grandi tempere sulle pareti del presbiterio, dai caldi colori pastellati, colme della poetica del Novecento, che richiamano alla mente altre prove di eminenti artisti di quel periodo fecondo, come Raffaele De Grada e Achille Funi. Una si intitola “Il funerale della Vergine”. Maria è trasportata a spalle da alcuni apostoli, seguiti e preceduti da una lunga teoria di fedeli. In primo piano, sulla destra, si distinguono le figure dei donatori, l’avvocato Pozzi e la moglie, e in questo viene ripresa l’antica consuetudine di raffigurare nell’opera pittorica i volti di coloro che l’hanno commissionata. L’altra tempera, collocata sulla parete di fronte alla prima, ha per titolo “Sinite parvulos…” e vi si vede al centro il Salvatore con gli apostoli. Davanti a Lui un gruppo di bimbi e, più sulla destra, alcune mamme con in braccio i loro fanciulli. Nella giovane donna che presenta al Signore altri tre bambini, si riconosce il volto, dolcissimo, di Antonia Pozzi. Il paesaggio sullo sfondo è con tutta evidenza ispirato a Pasturo e alla Valsassina. Il passaggio di Antonia tra noi, la sua breve vita segnata da un disagio che la condusse al gesto estremo in una gelida mattina di dicembre, l’affetto per il piccolo paese della Valsassina in cui trascorse giorni felici all’ombra delle montagne tante amate, tutto questo ci ricordano le due belle tempere di Aldo Carpi custodite nella chiesa di Pasturo, una che rimanda alle esequie di Antonia, accompagnata all’ultima dimora dai valligiani in mezzo ai quali trascorse i pochi momenti sereni e spensierati della sua tormentata esistenza e l’altra che ci restituisce Antonia nella freschezza dei suoi giovani anni, attorniata dai bambini che tanto amava e che così spesso ricorrono nelle sue liriche, sublimati in un desiderio di maternità che accompagnò, invano, ogni giorno della sua vita.

Antonia Pozzi e Aldo Carpi, due figure luminose della vita intellettuale italiana del Novecento, si sono incontrati qui, in questi due dipinti che ci raccontano dell’arte squisita di un pittore lui pure segnato dal dolore e dalla sofferenza, e della vicenda umana di una donna di alto sentire, di straordinaria sensibilità poetica, di un’anima che tendeva all’assoluto e che sperava di lasciare comunque un ricordo di sé in coloro che l’avevano amata, come dicono questi bellissimi versi iniziali di una sua intensa lirica: E poi – se accadrà che io me ne vada / resterà qualche cosa / di me / nel mio mondo - / resterà un’esile scia di silenzio / in mezzo alle voci - / un tenue fiato di bianco / in cuore all’azzurro. 

                                                                                                                                                                                           Gianfranco Scotti


* Articolo pubblicato sulla “Provincia di Lecco” l’11 febbraio 2007


IL GRINZONE n.18