Mattino

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Pochi versi: un periplo attorno a un lago, con uno sguardo distratto, per godere un piccolo panorama, o uno sguardo a fondo, oltre le rive, oltre il colore, oltre la quiete assoluta delle acque lacustri, per giungere in acque più fonde e, per questo, invisibili a chi legge, perché non si vedono né si sentono in nessuna delle parole che compongono la lirica?
   La poesia sembra proporre un piccolo quadro – un lago all’alba, un’isola, un cipresso – : una cartolina ricordo o da usare come segnalibro, perché la sua linearità aiuta a concentrarsi nella lettura.
   Ripercorrendo, però, il testo e ponendo attenzione alle immagini create dalle parole, si incomincia a scoprire che la linearità è solo apparente e nasconde una realtà ben diversa: a partire dall’antefatto, da una situazione ora mutata o, almeno, così sembra.
   Il lago è calmo, ora (incolumità), ha ripreso il suo colore unico, riflettendo uniformemente il cielo, che non è proprio azzurro, ma opalescente, come suggerisce non solo l’aggettivo “cerulea”, ma anche la presenza della nebbia. Ma, prima di questa quiete? Ecco il primo segnale , di un passato immediato, che nulla ha in sé di calma, di “incolumità”, di pace: la luna ha “infranto” il lago. Pensare a un lago notturno , sotto la luce quieta della luna, è immaginare un paesaggio riposante, capace di destare sensazioni e sentimenti di serenità, di dolce abbandono al sogno, di pace dello spirito; qui nulla di tutto questo: la superficie tremula del lago, su cui si riflettono i raggi lunari, è un pullulare di schegge, di ferite, di pezzi di dolore; è frantumata; per questo, all’alba, il lago si “ricompone”, ritrova la sua “incolumità”, la sua integrità, conforme a quella del cielo; trova, in una parola, la sua salvezza. Proseguendo nella lettura, si approda a un’isola “inferma” e viene spontaneo chiedersi: di quale isola si tratta? Ma è più giusto chiedersi: chi è l’isola inferma? Da essa e di essa nient’altro si vede che un cipresso levarsi solitario verso il cielo velato di nebbia; ed è l’unico elemento del quadro che si muove nell’immobilità totale del paesaggio: esso , con la sua vetta, sembra svolgere bende dalla nebbia, per fasciare le “ferite nascoste”. Le ferite di chi? Quelle del lago sono ormai ricomposte, risanate; non resta che l’isola inferma da curare, non restano che le sue ferite da fasciare: ferite che solo il cipresso vede, perché l’inferma , per un profondo senso di pudore, le ha nascoste, fingendo anch’essa un’incolumità che non possiede. E mentre compie questo gesto pietoso, diritto nella sua solitudine fitta di silenzio, il cipresso diventa un orante, che consacra al cielo il nuovo giorno. Si scopre, così, alla fine della brevissima lirica, tutta la sua intensità e la sua religiosità, nascosta in due verbi: “prega”, “votando”; dove la preghiera non è solo pensiero o parola, ma è offerta, vissuta nell’interiorità più profonda, lontana da sguardi curiosi, fossero anche compassionevoli; la pena tremenda del nuovo giorno, di una nuova situazione drammatica che frantuma la vita con altre dolorose ferite, è donata, come sacra libagione, al cielo. Ma il cielo non è, tradizionalmente, il luogo di Dio? E non è forse estremamente significativo che le bende per fasciare le ferite vengano dal cielo? Antonia Pozzi ci rivela, così, ancora una volta, un po’ di se stessa, traducendo in immagini le pene della sua vita – non è lei l’isola inferma? – senza metterle in vetrina, senza esporle all’avida curiosità dei passanti.

 

                                                                            Onorina Dino