Atene

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   Ombra e luce sono connaturati alla poesia di Antonia Pozzi come tristezza e serenità, angoscia e gioia, sogno e nostalgia sono connaturati al suo spirito e alla sua vita.
   Questa lirica, invece, si connota e si distingue per la totale assenza di ombra, come se, nei momenti dai quali essa è scaturita, la bellezza avesse colmato non solo gli occhi della poetessa, spalancati a berla a interiorizzarla, ma soprattutto il cuore: è il cuore che sembra traboccare di luce in questa lirica, breve e densa, tanto che se la leggessimo fuori dal corpus poetico, risulterebbe difficile immaginare quanto la vita della poetessa sia stata tormentata e intrisa di dolore. Se A. Pozzi scrive a Dino Formaggio: « […]ci sono soavità così perfette che fanno orribilmente soffrire», qui, di fronte alla bellezza dell’Acropoli, sembra, invece, che la sofferenza si sia tramutata in estasi, come in estasi sembra addirittura il cielo che, incantato da tanto splendore, si piega «ai margini della pietra», come non potesse attendere oltre a contemplare quello spettacolo.
    Anche in questa lirica non manca il moto ascensionale: sembra che l’ “alto” sia per l’animo di A. Pozzi una calamita che l’attrae irresistibilmente: “dal mare salivo/per alte scalee”; e il salire acquista una solennità straordinaria per la scansione dei versi e la posizione chiave del verbo che, mentre sottolinea l’estremo limite «mare» da cui il movimento ha inizio, crea intorno alla piccolezza dell’io e alla sua finitudine, una scenografia d’infinitezza, dilatata dalla profondità dei «cieli d’attesa» che si chinano nella contemplazione della bellezza, bellezza essi stessi. Gli accenti ritmici, poi, collocati nella medesima posizione (Con l’àlba/ dal màre salìvo/), e la cesura nel terzo verso «per àlte scalèe:// si piegavano»), scandiscono il ritmo deciso e regolare, ma lento, del passo proprio di chi incede in un luogo affascinante e lo sguardo, attardandosi stupito sulle cose che lo circondano, lo frena involontariamente nel suo andare.
   Ed è l’alba: è luce che rischiara cielo e mare e «l’attesa» dei cieli pare divenire anche l’attesa di Antonia Pozzi.
   Ed è sole che «trabocca» : il verbo tronco è come un’esplosione di luce e la parola «sole», collocata in posizione forte, a fine verso, e seguita dal punto fermo, rende in pieno il dominio della luce calda e viva sulla spianata, non turbata da alcun alito di vento, non da suoni: ferma e mobile al tempo stesso, come si percepisce dalla vita quasi umana che essa fa circolare nei monumenti di pietra: «Tepidi fiotti corsero nei fusti/ delle colonne/ dense vene si aprirono/ di linfa bionda»; e l’aggettivo “bionda” accresce la luce e la moltiplica, anzi penetra di luce la pietra. 
   Scrive Antonia ai genitori, proprio da Atene: «Non vi posso dire quello che è l’Acropoli vista da qui, dal Falero, al tramonto, sullo sfondo delle montagne… Prima di pranzo siamo scesi [dalla nave] e abbiamo fatto un primo giro fin sotto il Partenone, che era trasparente – capite – trasparente roseo leggero come una lampada di alabastro».
   Al moto dei cieli che si abbassano e di Antonia che sale si unisce il movimento della pietra fatta carne nella sua tensione verso l’alto: «[…]si levarono i templi nella luce/ come mani vive»: e avviene l’abbraccio tra cielo e terra; ma lo spirito che riceve l’abbraccio e che dell’abbraccio si esalta è quello di A. Pozzi, che, immersa nella luce, avverte e vive in sé, chissà con quanta lacerante emozione, il senso dell’eterno.

                                                                           

                                                                                                  Onorina Dino