In un cimitero di guerra

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    Sorprendono le poesie di A. Pozzi, ogni volta che si rileggono; sorprendono perché svelano qualcosa prima rimasto inosservato, poiché altri simboli o altre immagini si erano imposti alla lettura per la loro evidenza.
   Questa lirica si va componendo nel pensiero di A. Pozzi a S. Martino di Castrozza, durante una breve vacanza invernale, ma viene scritta nella sua forma definitiva a Milano: tanto forte fu l’emozione provata nel piccolo cimitero di S. Martino che essa divenne necessità di espressione e di meditazione poetica. Diversi temi s’intrecciano in questa lirica, ma tre sono quelli fondamentali; e sembrerebbero distanti l’uno dall’altro, quasi in contrasto fra loro: i morti-la morte, la maternità, il silenzio; ma essi, a loro volta, sono racchiusi in un alone di sacralità e di religiosità, di grande elevazione spirituale.
    Antonia non pronuncia mai la parola “morti”, come verrebbe ovvio pensare a partire dal titolo, ma si rivolge loro direttamente, così che la lirica si snoda in un colloquio piano, familiare, che sembra iniziato già prima, in un desiderio silenzioso di entrare nel cimitero, per un contatto più prossimo, più fraterno con i suoi “abitanti”. Ma il desiderio è frenato dall’avvertita coscienza che tra sé e loro, i morti, c’è un abisso invalicabile; essi, infatti, appartengono a un “oltre”, puro, immacolato: «bianca ed intatta è la coltre/ di neve/ su voi»; lei appartiene ad un “qui” che è fatto di «vie di terra». E non è soltanto il timore di macchiare materialmente, con gli scarponi infangati, quel candore incontaminato, ma la consapevolezza della distanza spirituale tra sé e loro: essi ormai in pace, purificati dal dolore e dalla morte, «vedono l’oro tuo,/ Signore,/ il mare eterno/ di te», come dice Antonia in «Giorno dei morti»; lei in “guerra”, macerata dalla «profonda pena/ d’esser viva». Ancora: nella scelta, sofferta, di restare «di qua dal cancello/ serrata/contro le sbarre», si nasconde anche il sentimento della maternità, così vivo in Antonia: la «coltre di neve» non è forse una bianca soffice coperta che una mano materna stende a coprire, scaldare, proteggere il proprio bambino? E il Cimon della Pala, che trae «dall’alto suo grembo/ di ghiacci e pietra» un «manto di nubi», per scioglierlo lentamente sui morti del cimitero, non è una delle “madri-montagne” così presenti nella poesia della Pozzi?
    Tutta la poesia si svolge in un tono sommesso di colloquio-preghiera, nel silenzio che avvolge ogni cosa: «taccion le strade/ e tace il bosco d’abeti», tace anche il vento, per non disturbare la pace dei morti o i loro colloqui sereni e i loro sogni: «ridono i morti/ piano fra loro:/ sognano lieve e più calda la notte», scrive Antonia nella poesia «I morti».
    Il desiderio di una più vicina fratellanza umana, di una calda carezza materna, si sublima, allora nell’offerta del simbolo religioso più alto: «un ramo in forma di croce» posto sul cancello, ad assicurare protezione, benedizione, pace. Il “materno”, ora, non è in un’immagine della natura, ma nel gesto pensato e voluto da Antonia: solo questo può fare per “loro”, i morti delle guerre, pensando che solo la morte può eliminare la contrapposizione io/voi, il contrasto fra la sua «profonda pena d’esser viva» e la loro «pace», mettendo fine, così, alla sua condizione di esilio per «le vie di terra» e colmando la sua nostalgia di un “altrove”, dove lo spirito possa ritrovare se stesso.

 

                                                                                                               Onorina Dino