La roccia

leggi la poesia


 

  La poesia è scritta nello stesso giorno di altre tre liriche: Ai fratelli, Settembre, Tristezza dei colchici; ed è la terza, nell’ordine di successione nei Quaderni, dopo Settembre. Tralasciando la prima e la quarta lirica, non perché meno importanti, ma perché implicherebbero un discorso molto più lungo, l’attenzione si ferma su Settembre per il suo raffronto inevitabile con La roccia, come diremo più avanti.
   Il titolo, «La roccia», ci lascia stupiti e sorpresi non appena si legge il primo verso: «Trine di betulla», che crea uno scarto fortissimo con esso: durezza e sicurezza, compattezza, stabilità e fortezza, da una parte; di contro, leggerezza e grazia, armonia e dolcezza di movimento, ma anche fragilità e instabilità, frammentarietà e fuggevolezza. La valle si configura come un mare di luce traforato da piccole ombre, una «trina», appunto; la trina è, però, un ornamento, abbellisce, ma non fonda, non dà sostanza all’oggetto.
   Antonia definisce «trine» i suoi pensieri del momento presente e certamente vuole indicare, con tale metafora, la loro frammentarietà, la loro fragilità, il loro essere in fuga, in rincorsa, senza un centro, senza un fondamento certo. Come le piccole tremule foglie delle betulle, che nel loro lieve moto diffondono luce e ombra, così i suoi pensieri: sono tanti, i più svariati, i più sognanti, i più speranzosi, i più tristi, sempre in moto nel tentativo e nel desiderio di fissarne e di concretizzarne qualcuno; sembrano dare luce al cuore, ma è una luce passeggera, presto sospinta altrove dal primo alito di vento, dalla prima burrasca.
   A questo presente, fatto di stati d’animo che si colorano e trascolorano in pochi attimi, subito si contrappone il passato, «ieri», e la «nuda montagna», «la roccia», appunto, del titolo; svaniscono allora le «trine di betulla», svaniscono i tentennamenti, i dubbi, le sospensioni, le angosce quando «il taglio delle rupi più eccelse» si staglia davanti allo sguardo e allo spirito di Antonia, come esempio di forza e di fermezza: «era il disegno/ della mia forza – in cielo»; «in cielo», non nella valle ricamata dalle trine delle betulle; «in cielo», in alto: là, Antonia vuole tendere, l’alto è la sua mira. Lo aveva già detto con slancio e decisione in una lirica di qualche anno prima: «Anima, sii come la montagna:/ che quando tutta la valle/ è un grande lago di viola/ […] lei sola, in alto, si tende/ ad un muto colloquio col sole» (Esempi, 10 aprile 1931). Allora il suo cuore non può più «parlare di rovina», come ha fatto qualche ora prima, nella poesia Settembre «[…] miei boschi/ vi è tanta pace/ in questa vostra muta/ rovina/ che in pace ora alla mia / rovina/ penso»; no, finché la montagna le insegna a tendere verso l’alto, le insegna la forza e il coraggio dello scalatore che non teme lo «spigolo nero a strapiombo»; perché«[…] la montagna è la prima che ci insegna a durare, nonostante gli squarci e gli strazi», come scrive all’amica Elvira (Lettera a Elvira Gandini, 8 agosto 1933); ma la sola montagna non basta a salvare dalla «rovina»:ci vuole «una corda [che] s’annodi all’anima». Fra tante metafore che costellano la lirica, questa della «corda» è forse la più nascosta, ma certamente la più importante: che cosa vuole dire questa «corda», che non s’annoda al corpo ma all’anima?
   Antonia riflette in questo periodo sul valore della sua poesia «[…] quello che mi fa più pena è il mio povero quaderno, “l’esercito di monchi e storpi”» […], scrive a Paolo Treves il 26 agosto 1933, alludendo, appunto, alle sue poesie, alle quali, forse, vorrebbe dedicare più tempo o che, forse, non le sembrano vere poesie, ma con la coscienza che la poesia soltanto può salvarla dalla «rovina», anche se le costerà una fatica suprema, come quella «del falco/ che sul torrione più alto/ regalmente ha voluto/ morire» e le cui ossa , ora, risplendono al sole, bianche; e «bianca» sarà l’anima della poetessa, illuminata dalla luce della poesia e purificata dalla fatica compiuta. Scrive, infatti, Antonia, ancora a Paolo Treves, il 9 settembre, proprio il giorno dopo che ha scritto La roccia: «A volte mi sembra che l’unica possibilità di vita, per me, stia lì; l’unica possibilità morale, intendo; perché sarebbe uno sforzo di volontà continuo, lo sforzo più grande ch’io possa fare: vincere il peso inerte delle parole inanimate, farle vive[…]. Ah, sogni, ancora sogni… Chi mi dice se è sogno o dovere?».
   Questa domanda troverà una risposta il 13 febbraio 1935, nei versi della lirica Un destino: […] se è tua / questa che è più di un dolore/ gioia di continuare sola/ nel limpido deserto dei tuoi monti// ora accetti/ d’esser poeta.

                                                          

                                                                                                                                                                                                                                          Onorina Dino