Infanzia

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   Nella produzione poetica di A. Pozzi ricorre con molta frequenza il tema del tempo: tempo che va, che fugge, non costruisce, separa, genera spaesamento, quasi uno sradicamento dal presente e una fuga nel passato che, a volte, proprio per la necessità interiore di staccare i fili con la realtà inaccettabile e il desiderio di ritornare a un’età felice perduta per sempre, ma rimasta radicata in fondo all’anima con una forza che aiuta ancora a vivere, diventa remotissimo, quando, addirittura, non fiabesco, un mito.
   Così accade nella poesia Infanzia.
   Il titolo dice già il bisogno di una fuga nel passato, quando «non aveva fosse/ la terra” » (Intemperie) e la vita era tutta allegria, luce, energia, colori, suoni: era la vita piena del bambino, cui un nonnulla basta per essere felice, che di tutto gode in una paradisiaca inconsapevolezza, che non conosce l’autoriflessione e non si interroga su di sé e sul perché del suo riso o del suo pianto.
   La poesia – tra idillio e fiaba – si compone di tante piccole immagini e forse soltanto ora, che rievoca quel tempo felice, Antonia Pozzi può coglierne e sentirne in tutta la loro essenza – e con quanta nostalgia si capisce solamente alla fine della lirica – la bellezza e lo splendore, mentre ne rivive lo stupore, riemerso improvvisamente nel suo spirito.
   Ogni immagine è un pezzo di vita e tutta la vita al tempo stesso, un lungo sguardo gettato all’indietro e subito volto al presente: sguardo stupito della bimba di allora, al mare, con il papà che la sollevava alta al di sopra del proprio capo, quasi per aiutare il suo occhio bambino a misurare meglio l’infinità dell’orizzonte e ad assorbire l’azzurra immensità del mare; o con la mamma, a raccogliere conchiglie; sguardo nostalgico della donna di ora, che arde dal «desiderio di cose leggere/ nel cuore che pesa/ come pietra / dentro una barca » (Desiderio di cose leggere) e per la quale «sfacendosi/ dolorano le cose» (Radici), da cui avverte un profondo, quasi assoluto distacco.
   Inizia, la poesia, con l’immagine del mare, accompagnata dal verbo «cadeva», insolito per il mare, perché indica un movimento dall’alto verso il basso, ma veritiero per la fantasia infantile, che seguiva il movimento delle onde che si sollevavano e, frangendosi, sembravano proprio gettarsi dall’alto, perdendo anche i connotati di onde e divenendo «mare», tutto il mare. Si può cogliere dietro questa immagine lo sguardo affascinato, forse anche intimorito e sbalordito, della piccola Antonia, mentre osservava lo spettacolo, e sentirne la risata liberatoria quando le onde si esaurivano in una scrosciante pioggia di spruzzi, dopo aver tinto di verde, per un istante, i vetri delle finestre.
   E qui incomincia la fiaba. « Era antica/ la casa»: l’ordine delle parole nella frase – prima il verbo con l’aggettivo, poi il nome-soggetto – e la scansione di esse in due versi, dei quali il primo lascia non solo la voce ma anche il fiato sospesi sull’aggettivo «antica», rimandano a un tempo lontanissimo, da fiaba, appunto; verrebbe da dire :“ C’era una volta…”; l’isolamento, poi, del soggetto in un verso a sé, allontana ancora di più «la casa» nel tempo e nello spazio e origina un senso di mistero e di fascino, come, di solito, il castello nelle fiabe. Ancora:la ripetizione e la dominanza del suono aperto della “a” in entrambi i versi accresce all’infinito non solo la lontananza spazio-temporale, ma anche e soprattutto la lontananza spirituale: è la casa del calore della famiglia, delle carezze, della gioia, delle corse spensierate, delle piccole e grandi scoperte: in una parola, la casa dei sogni, rimasta nel sogno e ancora sognata.
   Dopo questa descrizione, svolta in chiave impersonale, irrompe l’io di Antonia: «tu correvi gli scogli…ti tuffavi…», accentuando così il sentimento della lontananza temporale e creando un distacco fortissimo tra il presente e il passato, l’ ora e l’allora, uno sdoppiamento tra l’io e il tu: l’io di ora non è più il tu di allora, non tanto per le vicende esterne, quanto perché quelle vicende – corse tra gli scogli, tuffi, conchiglie (quante conchiglie amorosamente conservate da Antonia tra le sue cose più care!) sono il segno di una pienezza interiore, di una felicità pura, che ormai appartiene al passato; come la campana, che richiamava al pranzo la bimba, ebbra di sole e di mare e di gioia per tutte le conquiste della giornata: era una campana che suonava la gioia di vivere.
   Ora «In rete d’acque/m’è rinato/ il convento dell’infanzia», ma « Dove sei,/ scala bianca?/ M’è sfuggito/ un grido: manca il suolo.» ( Intemperie).

                                              

                                                                                          Onorina Dino