CAPANATT e SKILIFISTA

 

Nei giorni 5, 6 e 7 settembre, nella Piazza Vittorio Veneto di Pasturo, è stata allestita una mostra su Giovanni Gandin, per gentile concessione del CAI Lecco. Della guida alpina Gandin (IL GRINZONE n.22, marzo 2008) riportiamo un ricordo di Angelo Faccinetto pubblicato sul numero 2/2015 della Rivista del CAI Lecco 1874 .

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Ero appena un bambino allora, ma “il Gandin” – sempre rigorosamente chiamato così, con l’articolo determinativo – me lo ricordo bene. Per molti anni, anche se da noi ci metteva piede solo per qualche cosa da sbrigare, è stato come uno di casa. Presenza costante nei discorsi di mio padre. E orizzonte fisso delle mie mattinate domenicali, regolarmente santificate in Pialeral dopo una discreta scarpinata che prendeva le mosse dal cortile del bar-osteria della Leri a Balisio, dove si lasciava la macchina. Con qualunque tempo. (Ma se domani piove? Se piove si prende l’ombrello – era il refrain di mio padre).

In quegli anni il Gandin era il custode del “Tedeschi”, mio padre il comproprietario dello skilift poco distante, impiantato appena al di là della valletta di Parolo. Credo fosse per questo che noi avevamo il “privilegio” di accedere al rifugio dalla porta di servizio, quella che dava sul pollaio, guardava gli Scudi e immetteva direttamente in cucina. Entravamo e il Gandin, per niente alto ma ben piantato, se ne stava ritto dietro la stufa attorno alla quale si affaccendava la moglie. Quella posizione e il fare un po’ burbero gli conferivano un che di severo che mi intimoriva. Così, potendo scegliere, preferivo stare vicino al suo aiutante, il Giromin, un omino piccolo e taciturno dall’età indefinita, che ricordo spesso intento - tenendone un pezzo per mano - a mangiare pane e cipolla sotto il suo cappello, di un paio di misure più grande, perennemente calcato sugli occhi.

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Aveva fama di essere in gamba il Gandin come capanatt. Il vecchio “Tedeschi” (è stato spazzato via da una slavina nel gennaio 1986) era sempre pulito, ben riscaldato dalle grandi stufe di cotto troneggianti nelle due sale da pranzo e - credo grazie alla moglie - ci si mangiava bene. Un piacere starci. E poi lui era più che un semplice custode. Non solo perché era disponibile, a dispetto di una certa spigolosità di carattere. Si sapeva della sua attività di guida, che andava ben oltre le montagne di casa, della sua abilità di rocciatore, delle vie tracciate in Grignetta e Grignone (non per niente quell’appellativo di “Gatto delle Grigne”) , della sua minuziosa conoscenza della montagna, della sua perizia e generosità di soccorritore. E lo sapevano gli escursionisti che venivano fin là.

Io ancora non ero in grado di apprezzare queste cose. Ma ero rimasto affascinato da quello che un giorno, salendo, mi aveva raccontato mio padre: “Lo sai che quando era giovane il Gandin era amico del re del Belgio e rocciava con lui?”.

Avevo fantasticato molto sul Gandin e il “suo” re, che proprio non riuscivo a figurarmi in veste di rocciatore dovendo portare l’alta uniforme e la corona. E mi chiedevo se anche sulle guglie, su e giù per la Grigna, si portasse come aiutante il piccolissimo Giromin.  

Quando, dopo vent’anni di gestione, decise di lasciare il rifugio e scendere a valle lasciando disorientati i dirigenti della SEM, per i frequentatori del Pialeral era davvero finita un’era.


C’è però un altro aspetto, forse poco noto, che vorrei ricordare. Non era solo guida alpina, rocciatore, rifugista e soccorritore: il Gandin era anche skilifista.

52 Gandin2Al Pialeral, tra Arei e Piazza Cavalli a un passo dal “Tedeschi”, nel 1952 mio padre e il suo amico Massimo Annovi avevano impiantato un primo skilift. Era lungo poco più di mezzo chilometro, superava un dislivello di 215 metri, era dotato di un motore inglese a benzina da 8 cv, era capace di trasportare 53 persone l’ora e poteva funzionare con un vento laterale alla fune fino a 120 km/h. Ma soprattutto aveva una particolarità: era una sciovia smontabile. In autunno, con un buon numero di giornate di lavoro, venivano impiantati i pali e le stazioni di partenza e di rinvio, veniva tesa la fune; poi in primavera, allo sciogliersi delle nevi, con altrettante giornate di lavoro veniva smantellato. Per non intralciare il pascolo alle vacche. Così fino al 1958, quando nuovi accordi coi bergamini avevano consentito il passaggio a un più pratico impianto fisso.

Oltre a una consolidata consuetudine, era la sciovia il motivo del legame del Gandin con mio padre. 

Perché il Gandin era della partita. Dava il suo contributo nelle fasi di montaggio e smontaggio e quando l’impianto era pronto per l’uso faceva il motorista, cioè l’addetto al funzionamento. Lo ha fatto per diversi anni anche dopo aver lasciato la conduzione del rifugio (quando anch’io ero ormai chiamato a dare il mio piccolo contributo all’attività di manutenzione). D’altra parte non era un grande impegno. Lo skilift funzionava solo per qualche ora alla domenica e solo per noi e qualche avventuroso sciatore di passaggio. Era un impianto privato e tale restò fino all’inizio degli anni settanta, quando fu completamente rinnovato e per un decennio venne utilizzato come supporto alle scuole di sci alpinismo.

Il Gandin lo ricordo così. In piedi su un piccolo trespolo di assi intento ad agganciare alla fune dello skilift la pinza cui era legato il traino e ad accompagnare con un ampio gesto del braccio lo sciatore in partenza. Quasi una benedizione. Poi sarebbe salito anche lui.

                                                                                  

                                                           Angelo Faccinetto


IL GRINZONE n. 52