STEFANO TICOZZI E LA STORIA DELL'ARTE


In alcuni brevi scritti precedenti abbiamo cercato di rinfrescare l’immagine e il ricordo del buon sacerdote e rivoluzionario Stefano Ticozzi, per la sua produzione letteraria ed editoriale. Ora pur nei limiti della dovuta brevità, pensiamo sia giunto il momento di concludere la nostra rapsodica analisi della sua variegata opera critica e letteraria, e vorremmo farlo con l’aspetto cui certamente egli dedicò le sue migliori energie, il campo più originale dove profuse la propria fatica, la storia dell’arte.

Tutti sappiamo che l’Italia, il nostro bel paese, è la patria dell’arte e della bellezza artistica, ma non di meno il nostro è anche il paese che per primo si dedicò in modo organico e impegnato allo studio e alla elaborazione della teoria e della storia dell’arte moderna. Anche per questo aspetto occorre partire dalla grande stagione rinascimentale, che produsse novità ed eccellenze senza eguali nel campo della riflessione artistica. Soprattutto in Toscana naturalmente, come il geniale e intuitivo Leonardo o il grande e sistematico Giorgio Vasari; ma anche la Lombardia conobbe nel Cinquecento le sue personalità di spicco, come il mantovano Gregorio Comanini e soprattutto il milanese Giovan Paolo Lomazzo. Nel Seicento si aggiungono numerosi e anche settoriali repertori di temi e di personalità, che fonderanno in buona parte quello che ancora costituisce il grande canone artistico nazionale. Il secolo XVIII aggiunge la straordinaria fioritura della grande erudizione, antiquaria, letteraria e storica: è l’epoca di studiosi eroici e generosi che hanno posto, pur con tante manchevolezze, le basi della scienza storica moderna, in personaggi come il milanese Filippo Argelati, il bergamasco Girolamo Tiraboschi, o il più grande Ludovico Antonio Muratori. Appena al di qua di tale importante e riconosciuta linea di innovazione storica, che aveva posto per la prima volta una esigenza di indagine originale e di sistematicità, si colloca l’opera più importante in campo storico artistico del Ticozzi, stampata in redazione minore nel 1818 e poi in ampia edizione definitiva poco più di dieci anni dopo; di essa riportiamo per intero la dicitura che appare nel frontespizio, che rende ragione della complessità della fatica e della dignità del suo autore. Si tratta del: “Dizionario degli Architetti, Scultori, Pittori, Intagliatori in rame ed in pietra, Coniatori di medaglie, Musaicisti, Niellatori, Intarsiatori d’ogni età e d’ogni nazione”, di Stefano Ticozzi, socio onorario dell’Accademia di Belle Arti di Carrara, dell’Ateneo di Venezia, ecc., stampato a Milano nel 1830 in quattro volumi. Titolo assai ambizioso, che dichiara apertamente la vastità della materia e degli interessi che l’autore vi ha fatto confluire, dalle arti maggiori a quelle decorative e minori. L’opera dovette avere, come meritava, un buon successo e risulta ancora molto presente in tante biblioteche pubbliche, in Italia e all’estero. Inoltre basta uno sguardo a una qualsiasi moderna bibliografia di tale settore, su di un problema o su di un artista, edita ancora recentemente non solo in Italia, per sorprendervi spesso presente il nome del nostro Ticozzi, con il rinvio al volume e alla pagina in cui quel tema o quell’artista sono trattati. Certamente i progressi odierni degli studi sono stati enormi, ma comunque il contributo del Ticozzi resta ancora di una qualche utilità, di qualche interesse. La sua fatica dunque non è relegata nella solida polvere delle ricerche ormai superate e inutili, anzi per molti aspetti minori o proprii della sua epoca, il Dizionario risulta ancora una fonte consistente di notizie e di valutazioni. La bussola di giudizio cui Ticozzi si àncora resta sempre il canone rinascimentale e vasariano, ma questo per fortuna non gli impedisce di avere attenzione per ogni più differente esito artistico, per molti aspetti tecnici e formali ancora importanti.

Vorremmo allora dare la parola proprio a lui, al Ticozzi, e verificarne il polso di studioso riprendendo due schede dal primo volume della sua opera, quella dedicata al Caravaggio, artista oggi il più ammirato, e quella dedicata ad Andrea Appiani, lombardo e contemporaneo dell’autore.

AMERIGHI (Michelangelo) nacque in Caravaggio, grossa terra del territorio milanese oltre l’Adda, l’anno del 1560 da un povero muratore, che lo incamminò da fanciullo nell’arte sua. Ma un giorno che stava stemprando l’intonaco, vide lavorare alcuni pittori a fresco, e gli venne voglia di essere pittore. Si acconciò con diversi maestri, ed all’ultimo col cavaliere Arpino, che in breve lo vide suo emulo. Con certe terribili ombre, con grande tumulto di ombre e di lumi, con quei tratti a macchia che non lasciano distinguere i contorni, con quelle sue ignobili minacciose figure sorprese il pubblico, e prima del pubblico il cardinale Delmonte, che, secondo il costume de’ mecenati senza gusto, prese a proteggere le sue stravaganze. Questo mal seme di nuovo dipingere infettò tutte le scuole: e perfino il Valentino, il Guercino, e lo stesso Guido, che per altro non tardò a ravvedersi, si lasciarono sorprendere. Ad ogni modo non si possono negare al Caravaggio grande ingegno e somma conoscenza degli effetti dell’arte. I suoi quadri dei tre giuocatori, dei suonatori e del cantante, e pochi altri, sono cosa che sorprendono per l’effetto e per l’artifizio del dipingere. Uomo brutale, intrattabile, tutti sfidava a duello, tutti ferocemente insultava. Avendo ucciso un suo conoscente, fuggì da Roma a Napoli, indi a Malta, dove in premio del ritratto del gran maestro fu creato cavaliere, poi imprigionato per una disfida. Tornato a Napoli gli fu da un uomo da lui insultato sfregiato il viso. Tornando a Roma e perduta ogni cosa, postosi in cammino a piedi, fu sorpreso da febbre maligna, che lo trasse al sepolcro in età di 49 anni.

Poche note aggiungiamo a tale esposizione. Il pittore Valentino è Valentin de Boulogne, artista caravaggesco del seicento francese, mentre per Guido si tratta del bolognese Reni. Più importane invece che il giudizio di decisa stroncatura del grandissimo Caravaggio (il “mal seme di nuovo dipingere”) non ci deve sorprendere, quando si pensi che la esatta comprensione critica del tormentato pittore prende avvio solo nel secondo Ottocento e troverà pienezza a partire dagli studi del secolo scorso di Roberto Longhi. Inoltre in epoca ancora neoclassica è comprensibile quanto l’antirinascimentale e anticlassico Caravaggio, che aveva fondato il realismo seicentesco, dovesse apparire insopportabile e stravagante. Tuttavia l’equilibrio del Ticozzi ci appare in parte salvo per quel riconoscimento di “grande ingegno (cioè inventiva) e artifizio (cioè perizia tecnica) del dipingere” che egli non trascura di rilevare, anche se poi viene esemplificato con il ricordo di tre opere I bari, oggi negli Stati Uniti, il Gruppo di musici (al Metropolitan Museum), e forse il Suonatore di liuto ora a San Pietroburgo: tre opere della prima fase del pittore, di cui per altro a sorpresa risulta trascurato il ricordo della ‘milanese’ Canestra di frutta dell’Ambrosiana. Infine non sono imputabili al Ticozzi gli errori sulla cronologia biografica del Merisi, solo recentemente definita, e il giudizio problematico sul collezionismo del cardinal Francesco Del Monte. Vi ritroviamo insomma il Ticozzi coerente rappresentante del suo momento ideologico e critico che non poteva che generare una sostanziale incomprensione per il grande rivoluzionario che fu Caravaggio. Ben differente è l’attenzione che egli dedica invece a uno degli artisti più importanti della sua epoca, di cui era stato amico, Andrea Appiani:

APPIANI (Andrea) nasceva del 1754 in Bosisio, villaggio del territorio milanese, posto in salubre e ridente clima dall’immortale Parini leggiadramente lodato. A tutti è noto a quale infelice condizione fosse ridotta in Milano la pittura quando nacque l’Appiani, e basterà dire che si dovettero chiamare da lontane parte Traballesi e Knoller, per diversi rispetti valenti pittori, ma non tali da ritornare alla nostra città la gloria pittorica de’ precedenti secoli. Raffaello Mengs e Pompeo Battoni in Roma e qualcun altro in Pesaro, in Verona ed altrove, ma troppo lontani dall’adeguare in merito i due primi, avrebbero potuto dare utili ammaestramenti al giovinetto pittor milanese, che fu costretto a frequentare alcuni mesi la scuola del nostro pittore De Giorgi. La vista della Cena del Vinci e di altri eccellenti lavori, onde abbondava la nostra città, dei Luini, del Gaudenzio, di Cesare da Sesto, dei Campi, dei Crespi, del Moretto, di Paris Bordone, ec, lo fecero accorto, che seguendo il De Giorgi non avrebbe presa la buona via: e sulle opere de’ sommi maestri del miglior tempo dell’arte formò da sè quello stile castigato, e prese le belle forme ed il colorito che aver non poteva dai viventi maestri.

Alcuni somigliantissimi ritratti e pochi quadri storici di non grandi dimensioni eseguiti nella prima gioventù furono non dubbiosi saggi delle eccellenti cose che fatte avrebbe in più matura età. Avvicinavasi ai trent’anni quando fece la santa Elisabetta per la chiesa parrocchiale di Gambolò e l’Alcide al bivio per commissione d’un illustre personaggio, le quali opere lo fecero riguardare come il miglior pittore che avesse Milano, e dire a Giuseppe Parini, che Mengs e Battoni più non erano gli ultimi de’ grandi pittori italiani.

Nel 1792 gli veniva affidato l’importantissimo lavoro di dipingere a fresco i pennoni ed i due archi murati della cupola di santa Maria presso san Celso in Milano. Vedendo che doveva porsi in confronto di tanti eccellenti artefici che ne’ migliori tempi dell’arte ornarono così ricco tempio di nobilissime pitture, volle, prima di cimentarsi in così pericoloso lavoro, conoscere gl’inimitabili freschi del Correggio in Parma, di Michelangelo, di Raffaello, di Annibale Carracci in Roma, e di altri egregi artisti in altre città; indi in principio del 1795, apparecchiati i cartoni, eseguì in tre soli mesi i più bei freschi che da due secoli in poi si facessero in Milano.

I grandi ingegni appartengono a tutte le nazioni, e le politiche vicende contribuiscono ad accrescere loro celebrità. Andrea Appiani fu nel 1797 eletto membro legislativo della Repubblica Cisalpina; nel 1802 uno dei dugento del collegio elettorale dei dotti; in appresso venne ammesso nell’Istituto nazionale di scienze, lettere ed arti, fatto cavaliere della legione d’onore e della corona ferrea, membro dell’accademia di Belle arti in Milano, primo pittor reale, ec.

Ora verrò accennando le sue principali opere senza obbligarmi a verun ordine cronologico. Fece all’olio per la chiesa parrocchiale di Alzano presso Bergamo il quadro d’altare rappresentante l’incontro di Rachele al pozzo, di cui pubblicò nel presente anno una bellissima stampa in rame l’egregio intagliatore Giovita Garavaglia; un altro quadro di altare per la parrocchiale di Oggiono; i quadri di Rinaldo e d’Armida, di Achille, del Congresso degli Dei, della Toeletta di Giunone ornata dalle Grazie; quattro quadri a tempera rappresentanti il Ratto d’Europa per il conte Silva, che ora vengono intagliati dal valente professore Paolo Caronni sopra disegni del celebre Raggio; il sipario del teatro filo drammatico di Milano; molti ritratti all’olio d’illustri personaggi viventi, che non permettono, per così dire, di desiderare in tal genere più perfetti lavori; la Cena in Emmaus eseguita per la Società degli albergatori di Milano, che ora si va intagliando sopra disegno del detto Raggio.

Appartengono ai tempi che precedettero i freschi della Madonna presso s. Celso quattro cavalli dipinti a fresco nella medaglia della volta d’una sala della Pinacoteca, il Trionfo di Imeneo nella volta d’un gabinetto del palazzo Roma, varj rabeschi imitanti arazzi nel palazzo di corte, nella real villa di Monza e la stupenda medaglia in una sala del palazzo Belgiojoso, ora villa reale in Milano, ec.

Ma troppo lunga opera richiederebbe un esatto elenco di tutte le opere del nostro Andrea, né lo consentirebbe la natura di questo dizionario. Ci limiteremo pertanto a dar contezza dei magnifici freschi eseguiti negli ultimi anni della sua vita pittorica nelle camere della real corte di Milano. (…)

Imitatore di nessuno, dotto e castigato al pari di Raffaello Mengs, ai pregi dello studio aggiunse quelli della natura che fecero di Pompeo Batoni un degno emulo dell’illustre pittore alemanno. Alle grazie dello stile correggesco unì la nobiltà raffaellesca, e talvolta la grandiosa maniera di Baccio della Porta; e se non giunse all’apice della perfezione, talmente vi s’accostò, che pochi passi rimangono a fare al fortunato ingegno chiamato a così sublime destino.

In aprile del 1813 fu colpito da apoplessia, che non lo privò di vita, ma gli rapì il libero esercizio della mente e delle membra; e senza speranza di miglioramento visse infermo ed afflitto fino al dicembre del 1817, in cui mancò alla gloria dell’arte.

Quanta diversa attenzione egli riserva ai due artisti! Ma non si pensi che sia solo un suo limite, perché ogni operazione storico-critica è sempre anche un’operazione individuale e opinabile, datata, che importa una assunzione di responsabilità. Intanto la adesione all’arte dell’Appiani è sì completa ma non senza il lieve velo di una qualche appena accennata attenuazione. Del pittore brianzolo si delinea la formazione regolare, tra modelli manieristi anche lombardi (in cui poteva essere ascritto anche Gaudenzio Ferrari) e modelli europei della sua epoca, la sua dedizione al lavoro e all’arricchimento culturale, che lo portò a un intensa operosità apprezzata dalla comunità in cui visse. Non secondario compare il nome del poeta Giuseppe Parini, cui furono legati sia il pittore che il nostro critico, che ebbe un ruolo da protagonista nella formazione del gusto artistico della Milano settecentesca. La scheda sull’Appiani ci mostra insomma un Ticozzi capace di essere sia biografo che catalogatore che interprete dell’opera di un artista, agevolato in tale occasione ovviamente dalla prossimità. Ma la fatica del nostro autore nel complesso è davvero imponente. Sorprende la quantità di dati che egli ha riunito nei quattro volumi della sua opera, dall’arte antica a quella contemporanea, dalle arti maggiori a quelle decorative e minori, certo non sempre con dati di prima mano né sempre con sicure intuizioni critiche, ma non senza una utile volontà definitoria e catalogatrice.

Ma che ci può dire ancora ai nostri tempi, in conclusione, il simpatico Ticozzi? La controversa Italia di oggi che cosa vi può rimeditare? L’esempio del nostro studioso ci dice ancora una volta che la ricchezza su cui questo paese può sempre contare, quella ricchezza che se giustamente valorizzata non avrebbe nulla da invidiare al petrolio (chè al contrario a differenza del prezioso combustibile fossile, non va ad esaurirsi e richiede solo di essere preservata e valorizzata), e cioè quello straordinario patrimonio artistico che abbiamo la invidiata fortuna di detenere, richiede innanzitutto il nostro amore e la nostra passione; ma questi nobili sentimenti procedono sempre e soltanto dalla adeguata e corretta conoscenza, che deve essere il primo gradino di avvicinamento a ogni valorizzazione: di questo e non altro ci parla ancora la improba fatica di Stefano Ticozzi.

                                   

                                                                                                            Renato Marchi


IL GRINZONE n.33