Che cosa cerca, ancora, Antonia? seconda parte

 

“Cercavo i ciclamini fra i rovai”. Antonia Pozzi, come nei suoi versi di ‘Canto selvaggio’, anche nella vita, nonostante il dolore – anzi, proprio perché sa il dolore – cerca la bellezza. Guarda il mondo per quello che è, nel bene e nel male. C’è il “velenoso mondo” (‘Fuga’), ma pure che “l’anima mia di fiore / era fiorita / per tutti i prati / di tutti i paesi” (‘Colloquio’). E poi il suo essere assoluta non significa essere esclusiva. Lei accoglie: attraverso la poesia, con la fotografia, nel cuore. Comprende la complessità dell’esserci, consapevole della propria fragilità e insieme della propria ardente dignità. È inclusiva ed empatica.

Che cosa cerca, ancora, Antonia? Dopo l’intervista a Onorina Dino, questa è la volta di Graziella Bernabò, che con la prima ha curato “Parole. Tutte le poesie”, edito da Àncora.

 

Chi è oggi Antonia e che cosa trovano oggi i lettori nel suo messaggio? Più specificamente ancora, che cosa dice alle donne Antonia?

GB: Attualmente Antonia Pozzi è considerata non solo come una delle voci più interessanti della poesia italiana degli anni Venti-Trenta, ma anche come una figura in anticipo sui tempi, in quanto precorritrice di una visione della vita e di una sensibilità poetica successive. In effetti le sue poesie – fatta eccezione per alcuni elementi tardosimbolisti e crepuscolari dei primi quaderni, peraltro comprensibili in un’autrice molto giovane, e comunque contemporanei a esiti già molto interessanti – sembrano scritte oggi e parlano con sorprendente intensità al nostro presente. Quali le ragioni di questo suo successo postumo che non accenna a finire, anzi aumenta con il passare del tempo?

Bisogna prima di tutto premettere che, negli ultimi decenni e soprattutto negli ultimi anni, il gusto poetico è ovunque mutato, rispetto sia all’epoca di Antonia Pozzi sia al periodo successivo. Infatti, in relazione alla crescente problematicità della realtà contemporanea, si è ovunque diffuso, di contro alla poesia criptica o agli sperimentalismi linguistici precedentemente in voga, l’interesse per una poesia centrata sui grandi temi dell’esistenza e sul rapporto profondo dell’essere umano con il mondo. Aspetti, questi, centrali nell’intera produzione pozziana. Di fatto, quella di Antonia, è la poesia per eccellenza dell’incontro e della relazione con gli altri e con le «cose sorelle» (Largo). Vi trovano posto i luoghi prediletti – Pasturo, la Zelata di Bereguardo, le periferie di Milano Sud –, l’amore inteso come passione insieme spirituale e fisica, il desiderio inappagato della maternità, la dolcezza dell’amicizia, l’angoscia dell’incomprensione e della solitudine, il miracolo della poesia, una spiritualità di ampio respiro in cui non si avverte scissione tra corpo e anima, finito e infinito. Nelle sue poesie degli ultimi anni entrano poi la denuncia degli orrori delle guerre e l’attenzione ai problemi sociali negati dalla propaganda fascista, ma da lei riscontrati in tutta la loro evidenza nei desolati sobborghi che frequentava con Dino Formaggio, l’ultimo uomo da lei amato.

E tutto questo si traduceva in un linguaggio poetico nuovo per la sua epoca. Antonia Pozzi si poneva infatti al di fuori sia della poetica dell’«assenza» e delle rarefazioni degli ermetici di area fiorentina – sgradite a lei come ad Antonio Banfi, del cui gruppo faceva parte –, sia della disciplinata e composta «poetica degli oggetti» che stava alla base di quella che Luciano Anceschi, critico di area banfiana, avrebbe definito in seguito «linea lombarda». La sua era piuttosto una poesia del radicamento forte e vivo nel reale, che si realizzava – pur nell’ambito di una rigorosa elaborazione formale e di una raffinatezza stilistica tanto più notevole quanto meno esibita – attraverso un asse metonimico di associazioni logiche estremamente sensoriali, quindi di immediata comunicatività. In questo modo Antonia superava la frattura tra parola e corpo che altri poeti del suo tempo si imponevano come una sorta di dovere, e riusciva a esprimere un meraviglioso e libero immaginario di donna. Questo però doveva apparire sconcertante all’interno del suo ambiente culturale, in cui le donne erano accolte volentieri, ma contemplate essenzialmente nei loro aspetti di omologazione a un pensiero fortemente razionalista che, sebbene estraneo agli squallidi miti fascisti e aperto invece alla più moderna e interessante filosofia europea, restava ancora chiuso, per ovvie ragioni storiche, all’alterità femminile. Non a caso la vera e propria riscoperta di Antonia Pozzi in Italia e all’estero (che è andata molto oltre la valorizzazione di Montale avvenuta negli anni Quaranta) è iniziata a partire dagli anni Ottanta del Novecento, in concomitanza con una crescente valorizzazione della scrittura delle donne, finalmente apprezzata per se stessa, quindi non più soltanto nell’ottica banale di una subordinazione o di una assimilazione a quella maschile.



Per esempio, oggi possono dirci molto poesie del 1931 come La porta che si chiude e Rossori, e del 1933 come Il volto nuovo e Il porto, dove, con fisica concretezza, trova espressione quel senso di estraneità a se stessa e alla vita che è costretta a sperimentare una donna a cui viene impedito di esprimere il suo più vero essere. E affascinante appare – specialmente nelle poesie più mature di Antonia, come Radici, Tempo, Le montagne – la sua visione degli amati monti di Pasturo, che si risolve in immagini, da un lato, ancestrali e mitiche, dall’altro, familiari, materne e protettive. Infatti queste montagne, con cui lei mostra di avere un rapporto privilegiato, custodiscono nel loro «grembo», insieme alla vita sotterranea e segreta che incessantemente si rinnova, il suo stesso «stelo / di pallide certezze» (Radici); e per tutti sono «madri» silenziose e forti che «maturano figli / all’assente» nell’«infinita speranza di un ritorno» (Le montagne). Su un piano più generale, è di grande impatto nei versi pozziani la rappresentazione della terra-madre e della sua rigogliosa vegetazione, soprattutto dei suoi moltissimi e variegati fiori, che appaiono insieme straniati e carnali, nell’esprimere un ardente eros di donna rivolto sia all’uomo amato sia alla vita tutta. Penso, per fare solo pochi esempi, alle «camelie bianche rosse ridenti» della poesia I fiori; all’«irto fiore» di Nevai, ai «mughetti che crescono senza tregua» di Tempo e alle «salvie rosse» che, in Voce di donna, gridano l’amore e il dolore della sposa di un soldato lontano per la guerra.

Per concludere, parafrasando il titolo di quest’ultima poesia, potremmo dire che quella di Antonia Pozzi è un’originale ed energica «voce di donna», come tale apprezzata e amata oggi da tante donne che vi si riconoscono, ma anche da quegli uomini – e non sono pochi – che si dimostrano capaci di valorizzare, nella vita come nella poesia, la «differenza» femminile, vedendola come una ricchezza per tutti.

 

Bernabò, lei ha scritto del coraggio della poesia di Antonia Pozzi. Perché?

GB: Ho scritto di questo in riferimento al 1935, un anno per lei difficile su molti piani. Prima di tutto per  la fine della speranza d’amore con il compagno di studi Remo Cantoni, che ricambiava il suo sentimento solo con una affettuosa amicizia. In secondo luogo per il suicidio dell’amico Gianni Manzi e per la decisione della sua amica più cara, Lucia Bozzi, di entrare in convento. Ma su Antonia, che da sempre aveva fatto della poesia una fondamentale ragione di vita, anzi il cuore della sua stessa esistenza – come si vede dalla sua corrispondenza con l’amico poeta Tullio Gadenz –, pesò moltissimo anche la netta sottovalutazione dei suoi versi all’interno del gruppo banfiano. In realtà, dietro tale giudizio, non c’era alcuna malevolenza, tanto più che Antonia Pozzi era molto benvoluta per la sua gentilezza e generosità e godeva di sicura stima come intelligente e dotata allieva di Banfi, che le propose addirittura la pubblicazione della tesi di laurea sull’apprendistato letterario di Flaubert. In questo ambiente fortemente razionalista risultava invece difficile accettare la sua poesia centrata sull’emozione e sulla relazione, cioè su aspetti oggi ampiamente rivalutati, perfino su un piano filosofico, ma in quel momento considerati erroneamente come forme di sentimentalismo e di debolezza da superare con uno sforzo di volontà. Antonia visse di conseguenza momenti di grande scoraggiamento, anche se in fondo reagì proprio continuando a scrivere versi, e versi nei quali non rinunciava a esprimere quella calda e totale apertura al mondo che dagli amici era vista come una forma di «disordine», secondo quanto lei stessa scriveva nel diario il 4 febbraio 1935 (A. Pozzi, Diari e altri scritti, Àncora, Milano 2018, p. 87). Insomma volle coraggiosamente rimanere se stessa come donna e come poeta, pur sapendo che questo avrebbe comportato per lei un’incomprensione esterna. Lo si vede alla fine di Un destino, una poesia scritta emblematicamente il 13 febbraio 1935, giorno del suo compleanno : «[…] e se nessuna porta / s’apre alla tua fatica, / se ridato / t’è ad ogni passo il peso del tuo volto, / se è tua questa che è più di un dolore /gioia di continuare sola / nel limpido deserto dei tuoi monti // ora accetti d’esser poeta».

 

Lei ha avuto modo di raccogliere diverse testimonianze su Antonia. Dell’ultima fase, quella dei “tempi bui”, che cosa le hanno detto?

GB: Il periodo tra il settembre e l’inizio del dicembre 1938 (Antonia volle togliersi la vita il 2 

dicembre e morì il giorno successivo) fu per lei molto difficile. Prima di tutto per il terribile momento storico; infatti l’allineamento di Mussolini a Hitler aveva portato a un ulteriore incupimento della già pesante dittatura fascista. E, soprattutto, era iniziato dal mese di settembre il varo delle nefande leggi antiebraiche che, tra l’altro, avevano spinto a fuggire dall’Italia i suoi carissimi amici Paolo e Piero Treves con la loro madre Olga, e che Antonia, senza ombra di dubbio, visse con grande angoscia. Lo si vede in una sua lettera del 27 settembre 1938 a Dino Formaggio, che, prima di riconsegnarla a Roberto Pozzi, ne ricopiò questo frammento, di recente pubblicato: «E soprattutto siamo stufi di prepotenze, di soprusi, di aggressioni che sui giornali diventano “sacrosanti diritti”, degli urli della folla anonima ridotta allo stato di bestia cieca, della repressione barbara e retrograda di ogni voce umanitaria, del quotidiano capovolgimento della realtà di fatto» (in D. Formaggio, Amo la tua anima. Lettere ad Antonia Pozzi, con Altre Lettere a Dino di Antonia Pozzi, a cura di Giuseppe Sandrini, con la collaborazione di Lucia Pretto, alba pratalia, Verona 2016, p. 95). Lo attestano inoltre le sue struggenti lettere a Paolo Treves del 3 ottobre e del 5 novembre 1938 e un’affermazione contenuta nell’ultima lettera alla famiglia, di cui il padre trascrisse solo alcuni passi, dopo averla bruciata: «Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite…» (A. Pozzi. 1° dicembre 1938, in Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938, cit., Milano 2018, p. 314).

È poi indubbio che su Antonia abbia pesato anche il venir meno della speranza di un futuro d’amore con Dino Formaggio, come mi fu accennato dalla sua amica Elvira Gandini e dallo stesso Formaggio, che la incontrarono a un concerto alla vigilia del suicidio. Ma questo, di per sé, non sarebbe stato un sufficiente motivo della sua morte volontaria, se la sua angoscia finale non si fosse inscritta in una malinconia esistenziale che datava fin dall’adolescenza e in una storia di dolorose sconfitte affettive: la prima per l’opposizione del padre al matrimonio con il professor Antonio Maria Cervi, la seconda per  l’amore non corrisposto nei confronti di Remo Cantoni. Senza contare che la delusione per la fine del rapporto con Dino Formaggio riguardava per lei la fine, oltre che di una storia sentimentale, di un intero progetto di vita basato su un forte impegno sociale, etico e, in embrione, perfino politico: insomma di «una vita vissuta tutta dal di dentro» (A. Pozzi, Lettera a Paolo Treves del 23 ottobre 1938, in Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938, cit., p.310) che aveva a lungo sperato di condividere con lui.

 

Quali versi pozziani possono declinarsi e stagliarsi anche nel buio del nostro tempo e perché?

GB: Una poesia che mi viene in mente, a proposito del buio del nostro tempo, in cui continuano a perpetuarsi i misfatti della Storia con la “S” maiuscola – come la definiva un’altra grande donna, Elsa Morante –, è La Terra, dell’8 settembre 1937, quindi di un momento storico in cui imperversavano nel mondo terribili conflitti. Qui lo sgomento per le guerre sino-giapponese e di Spagna, con un espressionismo lessicale insolito nella lirica italiana degli anni Trenta, percorre non solo l’io poetante, ma anche tre luoghi in quel periodo particolarmente frequentati e amati da Antonia Pozzi – il litorale adriatico, la Val d’Ayas e Pasturo – ambienti di per sé tranquilli ma straniati dalla percezione di queste immani tragedie. Antonia ne affida l’annuncio al «vecchio gobbo», il mendicante indovino che ogni settembre giungeva alla fiera pasturese: « […] e a mezzodì s’avanza il vecchio gobbo, / canta sui ciotoli [sic] e per le donne accorse/ fra i trilli del suo timpano d’argento: “È fiorito il bambù, dopo cent’anni. / In riva a tutti i mari e ne morrà. Coll’autunno si secca la foglia, / a oriente scorron fossati di sangue, / vidi le braccia di migliaia d’uccisi / penzolar sull’abisso / ad occidente”». In questa poesia, come nella Storia di Elsa Morante, il ripudio della guerra non nasce dunque da un’astratta presa di posizione ideologica ma da una concreta sofferenza, vissuta dall’autrice nella propria carne e condivisa con uno schietto mondo popolare.

Inoltre voglio ricordare una poesia molto importante del 1938, Via dei Cinquecento, dove Antonia, con una sofferta partecipazione emozionale e con un linguaggio volutamente schietto e crudo, parla di quello che trovava nella «casa degli sfrattati», situata appunto in quella strada milanese di estrema periferia, smentendo così l’immagine edulcorata che la propaganda fascista trasmetteva dei ceti più indigenti: «[…] la fame non appagata, / gli urli dei bimbi non placati, / il petto delle mamme tisiche / e l’odore –/ odor di cenci, d’escrementi, di morti – / serpeggiante per tetri corridoi –[…]». Mi sembra che questa sua empatia verso l’umanità offesa possa acquistare un profondo significato in un’epoca, come quella attuale, di crescente indifferenza e, talora, di vera e propria ostilità nei confronti di tante persone provate dalla fame, dalle guerre e da altre forme di violenza, e continuamente mortificate nella loro dignità.

 

Grazie!

 

                                                                                                     Tiziana Altea

 

*Intervista integrale pubblicata sul sito www.antoniapozzi.it


IL GRINZONE n.71