«Io a volte sono un po’ “rustega”»

Le lettere di Antonia Pozzi e l’uso del dialetto

  

   La scrittura di lettere e cartoline ha accompagnato l’intero tragitto terreno di Antonia Pozzi. La prima testimonianza di cui disponiamo risale infatti al 1919, quando un’Antonia di appena sette anni scriveva, da Pasturo, ai genitori che si trovavano a Venezia rassicurandoli che tutto procedeva per il meglio fra studio, giochi e passeggiate, così concludendo la missiva: «Sono buona per farvi contenti e vi mando tanti tanti baci». Vent’anni dopo, sarà sempre ai genitori che indirizzerà la sua ultima lettera, quella precedente al gesto estremo; in questa lettera, scritta in una Milano innevata e databile al 1° dicembre 1938, Antonia tornava idealmente a Pasturo, chiedendo di essere sepolta in quello che aveva sempre considerato il luogo del suo cuore: «Desidero di essere sepolta a Pasturo, sotto un masso della Grigna, fra cespi di rododendro. / Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete, perché ora io sono in pace»1.

 Sono molti i percorsi di lettura che le duecentocinquanta missive di Antonia Pozzi (ché tante sono quelle tramandate) permettono di intraprendere. Oltre al loro interesse in relazione alla sua opera poetica, le lettere da un lato ci restituiscono uno spaccato della buona società primo-novecentesca, consentendo di gettare luce su alcune dinamiche nei rapporti interpersonali che correvano all’epoca (si pensi per esempio alle dinamiche famigliari o a quelle relative alla socialità tra donne); dall’altro si inscrivono negli studi sulle scritture femminili e più specificamente sulle scritture private, come per l’appunto lettere e diari, che le donne hanno infaticabilmente scritto nel corso dei secoli.
E non è secondario l’interesse linguistico, considerando che la scrittura di lettere costituisce una sorta di zona franca rispetto a preoccupazioni normative, consentendo quindi di valutare il cosiddetto “italiano scritto dell’uso medio”; in un’occasione la stessa Antonia si «scusa dell’indole commerciale» della lettera che stava frettolosamente scrivendo alla madre «e dell’orribile italiano imbastardito», che, a suo dire, le stava uscendo dalla penna.2

  Soprattutto per il fatto che Antonia scrivesse per lo più a destinatari con cui era in grande confidenza (cioè famigliari, amici, compagni di studio), sulle pagine delle sue lettere potevano riversarsi un buon numero di espressioni colloquiali, idiomatiche, e dialettali. In particolare l’impiego delle risorse dialettali rispondeva in Antonia a una finalità espressiva e scherzosa, più che a una necessità denotativa; detto altrimenti, la poetessa ricorreva al dialetto per scaldare la pagina e per instaurare con i destinatari un clima di complicità, non perché si trovasse nella necessità di riferirsi, tramite il dialetto, a uno specifico oggetto o concetto di cui non conosceva o di cui non esisteva l’esistente in italiano. 

  La famiglia dialettale cui Antonia ricorre è ovviamente quella lombarda, con riscontri nel milanese e nel lecchese. Si tratta per la maggior parte di dialettismi che i linguisti chiamano “riflessi”, cioè impiegati in modo consapevole, come dimostrano le virgolette e le sottolineature che nella quasi totalità dei casi li accompagnano.

  Il dialetto può manifestarsi attraverso piccoli inserti, come nei seguenti esempi: «Li tengo allegri e, a furia di risate, sono riuscita a far mangiare anche “el scior dottor”»; «è bastata per rallegrarmi una garbatissima e lecchesissima voce che diceva: “ma s’el rispund no, s’el rispund no, cus’û de fag?” (Arrangia tu l’ortografia.)», cioè, letteralmente, ‘ma se non risponde, ma se non risponde, cosa devo fare?’; «Siamo tornati a casa non eccessivamente tardi (alle tre) e mi ha riaccompagnata “el me Vitori”», cioè ‘il mio Vittorio’ Sereni. In un paio di occasioni si riferisce scherzosamente al verme solitario da cui fu affetta come al ‘signor Pietrino’ e al ‘signor Battista’: «Sfido io che mangiavo mangiavo e diventavo come un lampione: c’era “el sciur Pedrin” che mangiava più di me! […] prova un po’ a prendere una lente e a guardare se si vede “el sciur Battista” che avevo nella pancia!»3.
Più spesso il dialetto compare nella forma di una singola parola, quasi sistematicamente adattata all’italiano e per lo più segnalata con espedienti grafici quali virgolette o sottolineature. Ecco che allora, nelle lettere, Antonia può riferirsi a terze persone disinvoltamente appellandole coccumella ‘cetriolo; (fig.) citrullo’, gianginario ‘sciocco, babbeo’, margniffone ‘drittone, furbone’, mutargnone ‘musone’, patanflona ‘spanfierona, donna grassa’ («Stamattina sono andata a piedi con la Ruthli fino a casa di sua zia Else, un gendarmone cinquantenne, simpaticissimo, tipo di patanflona intelligente e quadrata»4), patatuc ‘persona goffa e stupida’, racola ‘attaccabrighe’ ecc. Oppure può riferirsi a sé stessa come rustega ‘rustica’ («Io a volte sono un po’ “rustega”, per un eccessivo pudore dei miei sentimenti»5) o, di volta in volta, come la fiola o fiolina che scrive alla mamma definita scherzosamente vecia, cioè ‘vecchia’.
Ma se le parole dialettali puntellano queste lettere – e ricordiamo ancora, a puro scopo esemplificativo, caragnare ‘piagnucolare’, ghelli ‘quattrini’, morello ‘livido’, puciacca ‘pozzanghera, melma’, rampegadina ‘arrampicatina’, rat-tapun ‘talpa’, s’ceppa ‘imbranato, schiappa’, stremizio ‘spavento, paura’ ecc. –, è anche testimoniato un cospicuo numero di parole di origine dialettale ma di più ampia diffusione nazionale, benché ancora evidenziate da Antonia attraverso le virgolette o il corsivo: si pensi a voci di ambito genericamente settentrionale come magone, ravanare, pastrugnare.
Ricalcano invece modi di dire locali l’espressione pelare i passeridesidereremmo sapere se costassù si pelano i passerini, per regolarci con l’abbigliamento da portare»6), che parrebbe alludere figurativamente al fresco dell’autunno, quando si pelavano i passeri per fare lo spiedo; l’espressione essere il padrone della meloneraAll’albergo si sta bene, camere belle con stufetta elettrica e “padrone della melonera” perché ci siamo solo noi»7) e infine portare un indumento addosso e uno al fosso, che evidenziava in modo tanto sintetico quanto efficace il desiderio di cose semplici della nostra Antonia. Così scriveva a Dino Formaggio il 28 agosto 1937:

ma cosa m’importerà […] di avere soltanto due grembiali (uno addosso e uno al fosso – come dice il proverbio delle nostre campagne) pur che alla sera mi sia dato aspettare un volto caro e mettere sul fuoco una minestra che non sia soltanto per me e rammendare delle calze che non siano soltanto le mie”.8

 

                                                                              Giuseppe Sergio



1A oggi la più completa raccolta di lettere della poetessa si legge in: Antonia Pozzi, Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, Milano, Àncora, 2014 (la prima lettera di Antonia, da cui è tratta la citazione, si trova a pagina 51; l’ultima a pagina 314).
2Lettera del 1° agosto 1936 alla madre Lina, citato da Ti scrivo dal mio vecchio tavolo., cit., pp. 250-253.
3Anche queste citazioni sono tratte dalla raccolta Ti scrivo dal mio vecchio tavolo, cit., rispettivamente, alle pp. 89 (lettera del 5 luglio 1929 alla madre Lina), 125 (lettera dell’11 agosto 1931 al padre Roberto), 237 (lettera del 1° dicembre 1935 ancora alla madre), 279-280 (lettera del 21 settembre 1937 all’adorata nonna Nena).
4Ivi, p. 259 (lettera del 13 febbraio 1937 ai genitori).
5Ivi, p. 293 (lettera del 2 luglio 1938 alla nonna Nena).
6Ivi, p. 82 (lettera del 23 agosto 1928 alla madre Lina).
7Ivi, p. 280 (lettera del 6 ottobre 1937, ancora alla madre); cfr. l’espressione milanese patron de la melonera ‘il padron di casa’ e la lecchese crèdess èl padrun de la melunéra ‘credersi il padrone del mondo’.
8Ivi, p. 276.

 

 

IL GRINZONE n.77