ZANZIBAR: UN VIAGGIO ATTRAVERSO LE EMOZIONI

 

Dove andiamo quest’anno? È questa la domanda che il mio ragazzo ed io ci siamo posti, prima di prendere la decisione di recarci in un posto tanto lontano da casa quanto meraviglioso: Zanzibar, un’isola della Tanzania, situata in Africa Orientale, nell’Oceano Indiano.
Una decisione abbastanza  inaspettata, innanzitutto per il periodo in cui bisogna recarsi, cioè il nostro inverno, durante il quale generalmente uno studia o lavora per potersi permettere una vacanza del genere; ma soprattutto per il fatto di andare a visitare per la prima volta un paese nel quale la cultura e lo stile di vita sono totalmente diversi da quelli a cui siamo abituati.
Nonostante queste insicurezze, e grazie all’incoraggiamento da parte di una mia amica che c’era già stata qualche anno prima, abbiamo prenotato ben presto la vacanza e i primi di marzo siamo partiti per la nostra avventura.

Dopo otto ore di volo siamo atterrati a circa sei chilometri dalla principale città dell’isola, Stone Town. Già guardando dall’aereo si poteva notare la povertà in cui vivono i zanzibarini: altro che case, vere e proprie baracche, ammassate l’una all’altra.

Appena scesi dall’aereo siamo subito stati investiti da una ventata d’aria calda e da un meraviglioso profumo d’Africa indescrivibile ma subito riconoscibile anche se lo senti per la prima volta.

   

All’uscita dall’aeroporto, dopo aver pagato il visto e dopo aver ritirato il bagaglio, siamo stati letteralmente assaliti da uno sciame di persone che facevano a gara per poterti portare la valigia al pullmino, che poi ti avrebbe accompagnato al villaggio scelto per la vacanza, solo per poter recuperare qualche spicciolo, ben attenti ad accettare solo dollari ed euro perché ovviamente hanno tutt’altro valore rispetto alla loro moneta, lo scellino tanzaniano.

Tuttavia l’impatto più forte è stato sicuramente il tragitto dall’aeroporto al villaggio che si trovava a Kiwengwa, nella parte orientale dell’isola: tutto quello a cui sei abituato te lo dimentichi appena varchi la soglia del parcheggio dell’aeroporto ed entri nei loro paesini.
In sole otto ore di aereo si viene catapultati dalla ricchezza, dall’avere tutto, al non avere nulla nel vero senso della parola, nemmeno un paio di scarpe decenti perché la maggior parte delle persone portava ai loro piedi dei copertoni di gomme, tagliati alla giusta lunghezza e legati alle caviglie tramite un nastro, forse allo scopo di assomigliare vagamente alle nostre infradito. C’erano case che è già tanto se ti permettono di avere un tetto sopra la testa, mezzi di trasporto che non si sa come facciano ad avere ancora le ruote, banchetti realizzati con materiali di fortuna che vendono di tutto e di più (pentole, mobili in legno, vestiti, parei, scarpe) ma soprattutto cibo per il quale l’igiene lascia alquanto a desiderare soprattutto relativamente alla carne perché la vedi appesa all’aria aperta con una media di 35 gradi all’ombra con tutti gli insetti posati su di essa; i “Dalla Dalla”, cioè i tipici furgoncini che effettuano una specie di servizio autobus, gremiti di persone e di bagagli anche sul tetto.
Nonostante tutto questo loro disagio, la cosa più bella e sorprendente è stato vedere che queste persone pur non possedendo nulla, pur senza avere nulla per cui essere allegri, avevano forse la cosa più importante di tutte: la felicità. Ovunque ti giravi c’era un saluto, un sorriso, un semplice cenno con la mano anche se non ti avevano mai visto prima ma dal quale traspariva la loro serenità e la loro ricchezza d’animo; per non parlare dei più piccoli che appena accennavano un sorriso o ti guardavano semplicemente negli occhi ti riempivano di gioia. E questa bellissima sensazione ti accompagna durante tutto il soggiorno in quella splendida terra.

Appena arrivati al villaggio scelto per la vacanza a Kiwengwa, siamo subito stati accolti con grande entusiasmo dai ragazzi del resort, che ci hanno dato un caloroso benvenuto.

Vale la pena dire che ciò che si legge in merito alla spiaggia e all’oceano che circondano quest’isola è tutto vero perché sono uno spettacolo della natura: ogni giorno ti trovavi di fronte ad un paesaggio che l’acqua rendeva completamente diverso rispetto a quello precedente. Infatti, tutta l’isola di Zanzibar, ad eccezione del nord, è soggetta al fenomeno delle maree; di mattina c’è la bassa marea e l’acqua è talmente lontana dal resort che è necessario percorrere alcune centinaia di metri prima che questa arrivi all’altezza delle caviglie; è proprio in questo periodo della giornata che è possibile anche vedere la barriera corallina con tutte le sue stelle marine colorate. Di pomeriggio lo spettacolo cambia radicalmente, tanto che basta solamente scendere i gradini che dall’hotel portano alla spiaggia per entrare subito nell’acqua.  

Ed è proprio sulla spiaggia che si ha la sensazione di vivere appieno la vera parte di Zanzibar. Davanti ad ogni resort c’erano i cosiddetti “beach-boys” ovvero i ragazzi della spiaggia che dalla mattina alla sera ti tenevano compagnia. Il primo impatto con questi ragazzi forse non è dei migliori perché quando si mette piede in spiaggia per la prima volta ti assalgono e ti pedinano insistentemente per poterti vendere in tutti i modi possibili manufatti del posto, portachiavi di ebano, cd, collanine, braccialetti, ciabatte e chi più ne ha più ne metta. Forse il primo pensiero che tutti hanno è “chi me l’ha fatto fare di venire qui in vacanza?!?”, un pensiero che così come è venuto se ne va immediatamente perché con il passare delle ore capisci che sono loro la vera atmosfera di Zanzibar e che se non ci fossero bisognerebbe inventarli perché molto probabilmente non sarebbe mai stata la stessa vacanza.

Infatti, superato il primo scoglio che consiste nel comprare qualcosa per farli felici, questi ragazzi color cioccolato si trasformano da venditori accaniti ad amici che ti chiamano sulla spiaggia per poter parlare, ridere, scherzare ma anche imparare l’italiano.
In questo caso due sono le cose che più mi hanno colpito. La prima è rappresentata dai loro “negozi” (se così si possono chiamare):
tutte queste boutique riprendevano le nostre marche italiane come il negozio di Gucci, di Dolce & Gabbana, Ipercoop, Esselunga che ovviamente non vendevano i prodotti che siamo abituati a vedere in negozi di questo genere, ma i soliti portachiavi, cd, ciabatte.
La seconda è che mentre gli uomini parlano, ridono e scherzano con gli italiani, le donne, vestite con dei colorati parei tradizionali, si occupano della coltivazione delle alghe; in quasi tutto il litorale della costa orientale di Zanzibar, si possono vedere centinaia di piccoli paletti affioranti con la bassa marea, tra i quali vi sono masse scure di alghe, con le quali vengono fatte delle creme.

Anche se i beach-boys non fanno nulla di male, ogni villaggio ha ingaggiato un certo numero di Masai provenienti dalla Tanzania per sorvegliare le spiagge e per impedire che gli estranei entrino nelle aree della struttura. Anche i Masai erano dei chiacchieroni come i beach-boys e pure loro i primi giorni cercavano sempre uno stratagemma per venderti qualcosa; alla fine della vacanza però ti rendi conto che sia i Masai, sempre vestiti con i loro capi tipici e con al posto delle scarpe i copertoni delle gomme, sia i beach-boys fanno parte di tutta quell’atmosfera che ti rimane nel cuore una volta ritornata alla vita di sempre.
Tutti questi ragazzi avevano nomi italiani: c’era Tabaccaio che vendeva le sigarette, Audi e Giovanni che erano i Masai del nostro resort, Giorgino che vendeva portachiavi e calamite in ebano, Big Mama e Fatima che facevano a mano le ciabatte nella loro boutique di Dolce & Gabbana. C’è un senso a tutto ciò: noi italiani siamo gli unici turisti che instaurano un rapporto con loro. Difficile vedere un tedesco attorniato da ragazzi del posto! Invece per noi era normale avere dietro il seguito che ti proponeva “affari” o semplicemente ti faceva da cicerone.

Posso dire che Zanzibar è stata una vacanza dai toni intensi: i colori dei paesaggi, i profumi, i sorrisi dei locali, l’insistenza e l’amicizia dei beach-boys e dei Masai, la cortesia e la costante allegria degli addetti alle attività turistiche. Tutto ciò merita davvero di essere scoperto e vissuto una volta nella vita perché ti crea davvero il tanto noto “mal d’Africa” che sinceramente non pensavo potesse realmente esistere.


                                                                                     Federica


IL GRINZONE n.51