PASTURO E BAJEDO:
DUE TOPONIMI DI ORIGINE CELTICA?


Toponimo è parola greca che significa “nome di luogo” (dal greco tòpos “luogo”, “regione” e ònoma “nome”). Non facile compito dello studioso di toponomastica, cioè di quella scienza che studia i toponimi nella loro origine e nella loro storia, è quello di ridare a questi nomi, divenuti per lo più opachi nel corso dei secoli o dei millenni, una trasparenza, un significato. Autentici relitti di lingue sepolte, incastonati come fossili negli apporti alluvionali delle parlate successive, i toponimi si tramandano, talvolta trasformati dall’uso, nel succedersi delle lingue e delle culture, su un dato territorio, e conservano così una viva testimonianza delle nostre origini lontane o vicine.


Ma ripercorrere le origini di un nome di luogo, spesso legato alla lingua dei popoli che si sono succeduti (Liguri, Celti, Longobardi, Franchi e altri ancora), è impresa ardua, pericolosa. L’origine di un nome di luogo, infatti, affonda a volte le sue radici in un sostrato antichissimo, addirittura preindoeuropeo (e quindi risalente a oltre 3000 anni fa), o fa riferimento ad una caratteristica ambientale non più esistente o ad un termine dialettale uscito d’uso da gran tempo. Per questo motivo la toponomastica è una disciplina ricca sì di fascino, ma irta di trabocchetti. Questo discorso vale anche per i toponimi di Pasturo e Baiedo di cui sono state avanzate di recente due nuove proposte interpretative tanto funamboliche quanto suggestive. A proporle con convincenti argomentazioni e criteri rigorosamente scientifici, ma più scopertamente ipotetici, è stato il prof. Guido Borghi in occasione del convegno “Dire, fare, pensare con e su i dialetti” svoltosi il 22 ottobre scorso presso il palazzo del Commercio di piazza Garibaldi a Lecco dove sono intervenuti i massimi esponenti di glottologia, linguistica, dialettologia, toponomastica ed etnografia d’Italia. Nel suo interessantissimo intervento intitolato “Continuità celtica nella macrotoponomastica indoeuropea nel bacino lariano” l’illustre ricercatore di Glottologia e Linguistica dell’Università degli Studi di Genova, suggerisce una prospettiva pre-romana (ligure e celtica) per i toponimi di Pasturo e Baiedo, convinto com’è che anche in questa vallata come del resto in Valtellina e in Valchiavenna e nella pianura lombarda si parlava in origine indoeuropeo e che più tardi lo strato indoeuropeo è diventato celtico sul posto lasciando però traccia nei nomi di luogo. Nel caso specifico di Pasturo, Borghi vi riconosce una voce celtica che significa “verde lussureggiante”, una spiegazione, questa, che si allinea in perfetta sintonia sia con le interpretazioni finora avanzate (dall’Olivieri in poi è stata ipotizzata un’origine dal latino *pastorium in rapporto con pastura, “il pascere, il brucare”, da cui il lombardo pastura nonché l’italiano pastura, “il pascolare, il luogo dove trovano da nutrirsi le bestie”, dato che la località si trova fra alpi e pascoli montani; ma si può richiamare anche il latino pastorius, “da pastore, pastorale”) sia con la conformazione naturale del luogo che – come scriveva Fermo Magni nella sua “Guida illustrata della Valsassina” (1904) - “è posto in bella situazione prospiciente i suoi verdi prati che scendono degradanti dolcemente fino alla Pioverna. Alle spalle si stendono i suoi pascoli ubertosi, fonte precipua delle ricchezze del paese”.

Nel caso specifico di Baiedo il Borghi vi riconosce un’altra voce celtica che significa “guado del cantone, villaggio”, una proposta che, a differenza di quelle finora avanzate (il toponimo è stato messo in relazione con un latino *betulliatae, “bosco di betulle”, attraverso una forma *Baljae), potrebbe, in qualche modo, giustificare la posizione strategica del luogo dove è sorta la celebre e possente rocca descritta anche da Leonardo da Vinci e distrutta nel 1513.

Queste rapide note sono sì delle suggestioni ma anche dei segni lasciati dal cammino della storia nello scorrere sinuoso e ciclico del tempo.

 

                                                                               Marco Sampietro

 

IL GRINZONE n.37