"PECCATI RISERVATI" NELLE PARROCCHIE

di PASTURO e BAIEDO a fine cinquecento

 

Il sostantivo italiano “peccato” deriva dal sostantivo latino peccatum che nel latino classico significava “sbaglio”, “errore” non grave, spesso involontario, come rivela la sua radice (la stessa che troviamo nel sostantivo latino pes, pedis, “piede”, probabilmente derivato da pedica, “laccio, trappola per i piedi”) che suggerisce l’idea del piede che inciampa in un ostacolo che gli occhi non hanno individuato. Allo stesso modo il verbo latino peccare significava “sbagliare”, “cadere in errore”, ed escludeva quindi l’idea di una volontà malvagia che assumerà poi con il Cristianesimo: furono infatti i primi cristiani a dare ai due vocaboli latini il significato con cui sono giunti sino a noi, quello di grave mancanza fatta a Dio. Ma nella morale cattolica c’è peccato e peccato. Al tempo di S. Carlo Borromeo (seconda metà del Cinquecento), ad esempio, c’erano dei peccati gravi che potevano essere assolti unicamente dal vescovo, da un suo delegato o in particolari tempi liturgici e che per questo erano inclusi tra i cosiddetti “casi riservati”.Nell’ambito della diocesi di Milano e della sua provincia ecclesiastica fu proprio S. Carlo a definire i “peccati riservati” e dei ben 93 casi, ecco, a titolo di esempio, un elenco sparso che rende però bene l’idea dei costumi e della mentalità del tempo: rapimento e violenza, inosservanza della clausura, contraffazioni, aborto, esposti, rapporti sessuali tra fidanzati prima della celebrazione del matrimonio, matrimoni clandestini, percosse ai chierici, incesto, inosservanza del magro e del digiuno nei giorni prescritti, inadempienza dei legati (cioè non pagare i propri debiti con la chiesa), inconfessi (cioè chi non si confessava e quindi non si comunicava nemmeno a Pasqua), riposo festivo, bestemmia, ecc.
Chi si macchiava di questi peccati poteva sì confessarsi ma la confessione portava, come conseguenza diretta e visibile, la non assoluzione del penitente ed il ricorso a Milano per chiedere la facoltà di assolverlo e l’indicazione della penitenza da comminare. Anche se la confessione era segreta, poteva nascere il rischio che l’intera comunità potesse scoprire, attraverso la penitenza (la pubblicità della colpa veniva cancellata dalla pubblicità della penitenza), il peccato commesso. Per questo nelle missive, con cui i parroci e i vicari foranei chiedevano al vicario generale della diocesi la facoltà di poter assolvere i fedeli caduti in un peccato riservato, solitamente non venivano indicati i nomi e nei casi in cui veniva postillata la penitenza non si faceva sempre la distinzione tra colpa pubblica e colpa occulta. Spulciando il Carteggio Ufficiale degli Arcivescovi di Milano (C.U.) depositato presso l’Archivio Storico Diocesano, emergono casi di peccati riservati che riguardano le parrocchie di Pasturo e Baiedo. Il caso che appare con maggiore frequenza è quello dell’assenza del cunino, cioè della culla, che le famiglie più povere non potevano neppure procurarsi. In molte case non esisteva che un solo letto in cui dormivano sia i genitori che i figli, senza che ci fosse il posto per mettere il cunino che, tra l’altro, non era molto pratico per quelle donne che anche di notte dovevano allattare il neonato. Ragion per cui, complici il freddo e la povertà della famiglia che non aveva di che riscaldarsi, molti genitori erano così costretti a tenere i bambini nel loro stesso letto, senza una debita protezione, col rischio di schiacciarli e/o soffocarli inavvertitamente nel sonno. Per questo S. Carlo aveva imposto con grande determinazione il divieto di tenere i bambini inferiori all’anno di età nel medesimo letto dei genitori e di considerare un peccato riservato l’assenza del cunino non già per violazione di leggi morali ma per preoccupazione di carattere igienico e di tutela del piccolo. Nel 1587 il curato di Pasturo, don Angelo Rognoni, scriveva al vicario generale: “… et certe donne … hanno tolto drento le creature in letto per scaldarle vorei autorità a liberarli, et autorità di darli licenza di torli drento in letto come la creatura è amalata, over come la madre è amalata …” (vol. 63, q. 1., f. 5r). E ancora il 20 marzo 1589: “… concedermi facoltà di assolvere … done che hanno tenuto li figlioli nel letto [Conceditur] (vol. 72, q. 30, f. 4r). C’è poi un unico caso di esposti (20 maggio 1584): “Nella mia cura di Pasturio vi è uno Giovanni Sciavatino di Valsesia, qual l’anno passato ha mandato al hospitale duoi figli hauti da adulterio, homo di mali costumi, giocatore, vagabondo, …, dato a mille vitij, non vi è giovine che lui non cerchi di pervertire, quando è alla Pasqua va in Valsesia a confessarsi, et comunicarsi porta sempre la fede sempre con poco frutto, et emendatione …” (vol. 60, q. 11, f.5r). Nel 1587 il curato scriveva al vicario per poter assolvere un interdetto per turbamento delle funzioni: “Ho interdetto Pietro Galbano da Baiè … per haver perso messa in giorno di festa, et fece ancho resistenza a voler uscir di giesa, doppo che fu interdetto …” (vol. 63, q. 1, f. 5r). Ci sono infine casi di inadempienza dei legati e di inosservanza del riposo festivo (20 marzo 1589): “… concedermi facoltà di assolvere quelli che hanno differto di supplire alli legati [Fiat] … et chi ha balato in festa in case private, et molinari che hanno macinato la festa con qualche scusa di bisogno”. (vol. 72, q. 30, f. 4r). O tempora, o mores!


                                                              Marco Sampietro


IL GRINZONE n.46