FINE INGLORIOSA DI UN INCUNABOLO

Pagine di un raro incunabolo del 1495 usate come copertina
di due registri parrocchiali a Pasturo e Primaluna

 

Con il termine incunabolo, derivato dal lat. incunabula, che significa “fasce dei neonati” (dal lat. cuna, “culla”), e, in senso figurato, “esordio”, “origine”, “nascita”, “primo inizio”, si designano i libri a stampa pubblicati tra la metà del Quattrocento e la data convenzionale del 1° gennaio 1501. Come è noto, l’invenzione della stampa a caratteri mobili, tradizionalmente attribuita a Johann Gutenberg, avvenne in Germania a Magonza intorno al 1455 con la pubblicazione nel 1457 della famosa Bibbia delle 42 linee, cosiddetta perché composta con pagine di 42 righe ciascuna. Tale invenzione rappresentò nella storia della cultura una vera e propria rivoluzione paragonabile soltanto a quella prodotta nel XX secolo dal computer e dalle nuove tecnologie telematiche. La stampa trasformò, infatti, radicalmente l’intero sistema di trasmissione della cultura, fino allora basata sulla tradizione orale e manoscritta, aprendo prospettive nuove all’istruzione e alla comunicazione delle idee e permettendo anche a ceti sociali non particolarmente ricchi di acquistare libri molto più economici dei costosissimi manoscritti. Gli incunaboli prodotti in Europa, da un migliaio di tipografie, sono circa dieci milioni e comprendono sia opere di argomento religioso (poco meno della metà) sia di carattere profano come i classici latini e greci, sia opere del secolo precedente o contemporaneo scritte in volgare.


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Il primo incunabolo stampato in Italia fu probabilmente l’Ars grammatica di Elio Donato, usata per tutto il Medioevo per l’insegnamento del latino ai bambini e detta per questo Donatus pro puerulis, cioè "Il Donato per i ragazzini", di cui però non ci è giunta alcuna copia. Venne poi stampato il De oratore di Cicerone, privo di note tipografiche, ma sicuramente impresso prima del 1° ottobre 1465. Il primo incunabolo datato in assoluto è, allo stato attuale delle conoscenze, l’editio princeps delle opere di Lattanzio stampato a Subiaco, vicino a Roma, dove nel monastero di Santa Scolastica, poco dopo il 1460, due intraprendenti tipografi di Magonza, Konrad Sweynheym e Arnold Pannartz, ex soci di Gutenberg, avevano impiantato la prima tipografia italiana. Altre ne sorsero poi a Roma e in altre città italiane come Firenze e soprattutto alla fine del secolo a Venezia, culla del Rinascimento italiano, con circa centocinquanta botteghe, tra le quali quella di Luc’Antonio Giunta e, celeberrima, quella di Aldo Manuzio, che può essere considerato il primo editore nel senso moderno della parola. E sempre a Roma, il 31 ottobre 1495, usciva dai torchi del tipografo tedesco Euchario Silber, in folio (305x210mm) e con iniziali grandi e piccole decorate su fondo nero, la prima edizione a stampa dell’opera omnia dell’umanista Giovanni Antonio Campano (Caserta 1429 – Siena 1477), curata dal canonico milanese Michele Ferno. Il volume, di ben 304 pagine non numerate, raccoglie quasi tutti gli scritti del Campano: trattati, orazioni, lettere, elegie, epigrammi, biografie come l’interessante vita del capitano di ventura Andrea Fortebracci, conte di Montone, mortalmente ferito sotto le mura della città de L’Aquila. La fama del Campano, già molto ammirato come oratore, storiografo, stilista epistolare, filosofo e poeta, crebbe grazie anche a questa prima edizione a stampa delle sue opere. Ma ad un certo punto anche la sua fama si eclissò e con essa la sua opera di cui una copia, come altri libri che non risultavano più utili per il contenuto, fu reimpiegata nella legatura di altri volumi come coperta, fogli di guardia o controsguardie o anche semplici rinforzi o brachette.


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Fu così che quattro pagine di una edizione del 1495 delle opere del Campano, per la precisione due pagine finali del III libro delle Epistulae e due pagine iniziali del IV, finirono in Valsassina e furono riutilizzate come coperta per rivestire i piatti, cioè le due parti solide di due registri con copertina in cartone, conservati presso gli archivi parrocchiali di Pasturo e di Primaluna. Entrambi furono ‘confezionati’ nel 1651 dal medesimo ‘artefice’, don Giobbe Marazzi, parroco di Pasturo dal 1640 al 1667. Il contenuto del registro pasturese (figg. 1-2) lo si ricava da ciò che si trova scritto sul frontespizio: “Jesus Mariae filius / Libro da descriversi li fitti / et instromenti et luoghi com/prati da mi prete Job Marazzo / curato di Pasturo. / Adi 20 Maggio 1651 / cavato dal libro gialdo (fig.3)”. Sulla copertina a stampa un’ulteriore nota del parroco Marazzi precisa: “Il mio Testam(en)to con il libro gialdo a foi 170 et è di 6 fogli l’ha rogato dopo il not. Bartolomeo Grattarola adi 8 gen(ar).o 1659”. Il registro primalunese (figg. 4-5), invece, contiene i verbali della congregazione del clero valsassinese dal 1651 al 1756, come si legge sul frontespizio: “Ad laudem congregationis Dei B(eatae).V(irginis). Mariae et / omniu(m) S(anct)or(um) / 1651 / Libro da descriversi tutte le cose et ordini che / si farano nella   n(ost)ra congreg(atio)ne essendo io / P(rete). Job Marazzo Cancelliere di d(ett)a Congre-g(atio)ne”. Un’altra mano, molto probabilmente quella del prevosto Carlo Francesco Gerolamo Crippa (1803-1832), precisa: “Levato dalla casa Parrochiale di Introbbio lì 14 settembre 1819”. La domanda che ora sorge spontanea è: donde derivano al parroco che fa rilegare (o che rilega) i registri le pagine in questione? Molto probabilmente si trattava di fogli ‘sciolti’, ‘sparsi’ che il parroco Marazzi, come tutti gli uomini di lettere e di legge, aveva a disposizione in gran copia nel suo studio. Non a caso il Marazzi, oltre che essere stato un notevole collezionista di opere d’arte nonché amico di artisti come il pittore fiorentino Aloisio Reali, fu anche bibliofilo: la sua biblioteca a Indovero era composta da ben 148 volumi, di cui oggi restano 5 cinquecentine e 14 seicentine.

Questa è in sintesi la ‘fine’ che ha fatto un raro incunabolo del 1495 ma è anche una bella lezione ‘ecologica’ sul riciclo della carta, attualmente raccomandabilissimo e, a mio avviso, obbligatorio. Riciclo che veniva comunemente fatto nei secoli passati. I nostri antenati avevano infatti compreso, prima di noi, che la carta costituiva un bene prezioso, che necessitava di tanta materia prima (stracci, oggi invece gli alberi) e di tanto, tanto lavoro e che quindi era assolutamente necessario usarla con risparmio e parsimonia. La fine ingloriosa dell’incunabolo del 1495 è anche una lezione di storia. Se è vero, come ci insegna J. Le Goff, che “occorre individuare, spiegare le lacune, i silenzi della storia e basare la storia tanto su questi vuoti quanto sui pieni che sono giunti sino a noi”, allora è importante studiare non solo ciò che è giunto fino a noi in modo integro ma anche fogli sparsi come quelli dell’incunabolo finito a Pasturo e a Primaluna. Perché tutto ciò ci aiuta a comprendere meglio la cultura del nostro passato.

 

                                                                                          Marco Sampietro


IL GRINZONE n.48