Nel Duomo

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  Una sorta di viaggio sembra di poter cogliere in questa lirica. Fin dall’esordio: forse soltanto la furia del meriggio ventoso spinge Antonia ad entrare nel duomo. Ma è davvero la furia del vento o un’altra furia, un moto incontenibile dello spirito in ricerca affannosa di una luce, di una verità o, più semplicemente, di un po’ di pace, come dice in un’altra poesia dello stesso anno, Largo< : …io entro soltanto / per avere un po’ di tregua/ e una panca e il silenzio…” ?
  L’oltrepassare le grevi porte segna l’inizio del viaggio, non tanto fisico, all’interno del duomo, quanto all’interno di sé: un viaggio dal buio alla luce, dalla realtà al sogno, dalla pena di vivere alla conquista della pace, da una oppressione di morte alla rifioritura della vita.
  Tutta la prima strofe si snoda sulla metafora-simbolo dell’ombra-acqua, scandita sui predicati e su alcune immagini che all’acqua costantemente rimandano: bevendo (v5), acqua tranquilla ( v9), rifletta (v10), remiga (vv.13 e 16), ancorarsi ( v13), golfi (v14), mare favoloso (v16), subacquea pineta (v18).
  Gli occhi abbagliati dal sole meridiano e arsi dal vento, anziché penetrare nell’ombra della basilica, sono penetrati da essa e nel tentativo di adeguare la vista al buio improvviso, sembra ad Antonia di bere quel buio, di assorbire l’ombra in sé attraverso i lunghi battiti / delle palpebre stanche: è la frescura che ristora non solo gli occhi, ma anche l’anima: quel bevendo, in posizione forte, dice l’avidità e il piacere dell’assetato che trova una sorgente o, più banalmente, ma con non minore godimento, un bicchiere d’acqua fresca per la propria arsura. I lunghi battiti delle palpebre fanno intuire i lunghi sorsi che scendono a rinfrescare la gola, rigenerando il corpo stanco e facendo rifluire il sangue nelle vene. Sicché l’ombra-acqua assume una connotazione positiva di riposo e di ripresa.
  I passi di Antonia diventano però morte cose scagliate nell’ombra-acqua la cui quiete si sfa e il cui tremulo affanno ripete da riva a riva / l’eco cupa del tonfo. Magistralmente Antonia ricrea le sensazioni sonore prodotte dalle cose che vengono sbattute nell’acqua e da essa inghiottite, con i suoni duri e chiusi, che si susseguono nelle parole di questo verso quasi in sequenza onomatopeica e cozzano l’uno contro l’altro, spegnendosi nel suono sordo della parola finale tonfo, sottolineando così uno stato di angoscia e di disperazione senza nome. E, tuttavia, non è questo l’esito finale. Infatti le morte cose vengono scagliate nell’acqua: c’è, dunque, la volontà di liberarsene, di tagliare da sé i rami morti: desideri sognati, sogni perduti, speranze deluse: giù, per sempre, nel buio del non ricordo; recidere, recidere: volontà dura, in un meriggio ventoso, di uno spirito che il vento della vita ha screpolato e riarso, ma non al punto da impedirgli di reagire, di tentare una rinascita. Ora, scrollatasi dall’anima l’insopportabile fardello, la tristezza può navigare per un mare favoloso, inabissarsi in oscurità profonde, scomparire nella subacquea pineta delle colonne del tempio, così che di essa non resta più alcuna traccia: si è persa per lontananze senza confine.
  Se la prima strofe è tutta costruita sulla metafora dell’ombra-acqua, la seconda corre sulle onde della luce e del fuoco: la lucente siepe di ceri fa sì che l’anima, dalle sperdute immensità in cui si era smarrita, discenda e ritrovi un suo luogo concreto e una sua nuova consistenza in “un nodo di fiamme: è la vita che si riaccende, ritrova il suo calore, il suo fuoco; anzi tre vite all’improvviso emergono dalla tenebra squarciata dalle diafane dita dei ceri: quella di Antonia, ormai rinnovata, quella di un’antica madonna e quella di un bimbo. Le fiammelle dei ceri, divenute un serto di fiori in omaggio alla madonna (fioritura tremante), si volgono a illuminarne il sorriso, sì che ora quel sorriso non è più vago, non è più anonimo, ma è rivolto a qualcuno: è un sorriso per Antonia, un sorriso per il bimbo; e il sorriso è saluto, è accoglienza, è invito, è perdono, è amore, è benedizione.
  Sotto questo sorriso materno si svolgono ora le due vite: del bimbo e di Antonia. Il bimbo sogna uno stupendo albero di Natale e che sian tutti balocchi/ i rozzi vetri sanguigni/ in cui esita un pallido lume. Il suo sguardo si spalanca a rincorrere il sogno, che, proprio perché sogno, non può avere confini e tutto lo incanta, come suggeriscono le due parole chiave che aprono e chiudono i versi che lo descrivono: assorto (v.34), sogno (v.46); ora la sua piccola vita è tutta in quello sguardo, in cui traspare la vasta purezza del cielo. Nell’anima di quello sguardo si perde l’anima di Antonia e si placa (ritorna, infatti, l’immagine iniziale dell’acqua tranquilla: suprema quiete del mare ) e si ritrova nell’estasi, come il bambino; ma la sua è l’estasi fiorita dallo svuotamento interiore dalle morte cose, che tumultuavano nel suo spirito e che ha avuto il coraggio di scagliare nell’ombra-acqua per lontananze senza confine, di bruciare su una lucente siepe di ceri.
  Con l’augurio a tutti i lettori di trovare lo stesso coraggio, sotto il sorriso della Madonna. Ella ci porge un Bambino, l’unico che può regalarci l’estasi della pace.

                                                                         

                                                                                    Onorina Dino