Preghiera

leggi la poesia


  Quando qualcuno vuole inventarsi un’Antonia Pozzi miscredente o addirittura atea certamente non ha letto tutte le sue poesie o, forse, ha sfogliato il libro delle sue “Parole” sorvolando qua e là, alla ricerca dei titoli più coinvolgenti la propria sensibilità e i propri gusti, senza la volontà di capire a fondo i testi.. Invece, bisogna partire sempre da una verità: che un autore o si legge e si approfondisce nella sua interezza e, quindi, si può conoscerlo come poeta e come persona, o si ha di lui una visione molto parziale e, quindi, falsa. Certi articoli di giornali, e non solo, recenti e non, lo dimostrano.
   Questa poesia ci consente di penetrare in uno degli aspetti meno evidenti della personalità di A. Pozzi e in uno dei temi meno frequenti della sua poesia, ma sentiti con sofferta sincerità e profondità. Essa fa parte delle poche poesie, in tutto una decina, del 1932, anno di grande angoscia e disperazione per Antonia, che si vede negare dal padre la libertà di legarsi per sempre al suo Antonello.
   In queste poesie Dio è costantemente presente come termine ultimo ed unico di riferimento, a cui attingere speranza e certezza: “Signore Iddio,/ fuori di te non c’è salvezza,/ lo so.” (Giorno dei Morti); o, più significativamente, come il lontano o l’assente e, proprio per questo cercato e invocato, nell’intima consapevolezza di avere smarrito anche Lui, nello smarrimento generale dell’essere: “ Non avere un Dio/… non avere nulla di fermo/…essere senza ieri,/ essere senza domani…” ( Grido), mentre ritorna il sospetto che la vita sia altrove e sia altro: “un soffio eterno che cerca/ di cielo in cielo/ chissà che altezza.” (Prati).
   La preghiera inizia d’impeto, senza preamboli, con un’invocazione diretta , “Signore, tu”, e due verbi che risaltano nell’insieme della prima strofe: “vedi, senti”. Sono due verbi forti, concreti, legati all’esperienza sensibile, alla vita a tu per tu, che fanno intuire, o meglio trasparire, una grande confidenza, un rapporto familiare e abituale, che non verrebbe negato neppure se quel “tu” fosse gridato come un rimprovero o come una domanda retorica che nasconda un’accusa: tu senti, tu vedi, ma…non fai nulla per me. E’ un chiamare Dio a testimone del proprio dramma, che dovrebbe essere anche, un poco, il ‘dramma di Dio’, per il solo fatto che il “canto segreto”, che non trova più, in Antonia, una voce che lo riveli, che lo porti agli uomini, appartiene a Lui, è “tuo” . Il “canto segreto”, dunque, la poesia , è ispirazione che viene da Dio, come pure la consolazione che fiorisce dalla bellezza del creato: “le nuvole tue consolatrici”; tutto ciò che più specificamente rivela un’essenza divina risulta in questi versi negato allo sguardo e alla parola di Antonia: “non ho più voce/ per ridire il tuo canto segreto”, “ non ho occhi più/ per i tuoi cieli, per le nuvole tue/ consolatrici”: non può nascere la parola poetica da una “caverna vuota”, non può contemplare l’anima la bellezza, se il suo occhio è “cieco”. Nel cuore c’è solo il deserto e la sete che arde le parole prima che possano essere pronunciate. Il “gran lago” della serenità e della pace, specchio dell’armonia stessa di Dio, è ormai stato prosciugato dal fuoco della vita. Ecco, allora, la domanda accorata, che sembra piccola, ma è grande, terribilmente grande, nella sua dolente umanità: “ …ridammi una stilla di Te,/ ch’io riviva”.


                                                                               Onorina Dino