Respiro

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  Che cosa è un respiro? Che cosa è il respiro che Antonia Pozzi ha dato come titolo a questa lirica e che non ritorna più in nessuna parte del testo?
Forse bisogna sussurrarne i versi, fermandosi su alcune parole, per giungere a una lettura ermeneutica di essa.
  Vero è, comunque, che la sola lettura della poesia genera un respiro interiore, profondo, di quiete, di pace, di riposante silenzio. E questo, nonostante il suono dell’armonica a bocca, lo «strumento fanciullesco» dell’amica Elvira, compagna di un campeggio col CAI a Breil. Il suono dell’armonica, infatti, è come una musica interiore, che guida lo spirito a immergersi nella contemplazione della notte, la quale, fuori dalla scura pineta, s’ingioiella di « una stella/ due stelle/ » fiorite dal «grembo del nevaio», che puntano diritte verso il cielo, mentre un’altra, profuso tutto il suo splendore, si spegne e « sprofonda/ dove la roccia è nera », così da confondersi con essa e con il buio della notte. La visione è, quindi, giocata sui toni luminosi del bianco ( nevaio- ghiacciaio) e del giallo- oro (stelle), che spiccano sul nero della roccia spoglia e del buio della notte , e su un ritmo che la introduce e l’accompagna: l’armonica , infatti, suona «lentamente», – lenta - mente direbbe la forma latina –; e il lemma fa già pensare a una mente che si profonda nella contemplazione, dimentica di ogni altra occupazione o preoccupazione, tanto più che esso, da solo, costituisce un verso, imprimendo alla lirica un forte rallentamento.
  Musica e visione, dunque, si intrecciano e divengono un’ unica realtà: la musica è visione, la visione è musica.
  Ed ecco, allora, la prima parola chiave: «abbandono», che significa liberazione dagli affanni e dalle angosce della vita, pace, unità dello spirito, respiro dell’anima, appunto, che dal «masso»-terra , è rapita verso l’alto dalle stelle, come da una forza gravitazionale opposta a quella terrestre, a cui è impossibile resistere, sì che la sua «ascesa » è «inesorabile»: l’ascesa è «abbandono», abbandono alla bellezza, all’estasi della bellezza: respiro.
E si è già nella seconda strofa, che mantiene il ritmo pacato e intensamente meditativo della prima, ma innesta nella visione un elemento umano: «la lampada di un uomo vivo» – un pastore – con il quale lo «strumento fanciullesco» intreccia un «colloquio intraducibile»: il suono dell’armonica diviene parola, ma è parola sì grande e segreta che le labbra non sono in grado di esprimerla. Essa passa da anima ad anima, dallo «strumento» «al lume dell’uomo vivo» e le due solitudini si incontrano e si affratellano, mentre le stelle sono distanti lassù e tacciono al cuore dell’uomo, sia egli il pastore, l’amica o la poetessa. Ora il lume non andrà più «solo/ sul ciglio del ghiacciaio», perché ha trovato una voce sorella che lo accompagna: è il massimo punto d’arrivo di una intesa umana e spirituale, sicchè il «nero informe/ stupore delle cose» non può avere altro effetto sui moti del cuore che quello di un «abbandono notturno/ sul masso/ al limite della pineta».

                                                                                          

                                                                                       Onorina Dino