PASTURO E GLI STRACCHINI D'AMERICA

 La Valsassina protagonista di un vecchio libro utilizzato nelle Università USA


Sul giornale “La Provincia di Lecco” di domenica 21 marzo è apparso un articolo, di Gian Luca Baio, che ci è sembrato opportuno proporre anche ai lettori de “Il Grinzone”. Ringraziamo l’autore e “La Provincia” per avercelo permesso.


Quando Paolo Cherchi, professore di letterature romanze dal 1965 al 2003 presso l’Università di Chicago, prese possesso del suo nuovo ufficio accademico, vi trovò inaspettatamente alcuni vecchi libri in italiano, malconci e polverosi, lì dimenticati o forse volontariamente abbandonati dal suo predecessore. Tra questi, uno era un cosiddetto “reader”, cioè un testo letterario commentato a margine che fungeva da manuale di lettura e di apprendimento per studenti della lingua italiana, con tanto di “vocabulary” in appendice, “notes on pronunciation” e segnature diacritiche per rendere meno ostica la nostra bella e difficile lingua agli studenti anglofoni: il testo, pubblicato nel 1931 proprio a Chicago, si intitolava “Fra le corde di un contrabasso” ed era stato scritto da Salvatore Farina – romanziere sardo, “naturalizzato” milanese – assai in voga in Italia nell’ultimo trentennio del secolo XIX, che per alcune consonanze stilistiche e di contenuto venne a più riprese definito, soprattutto all’estero, “il Dickens italiano”.

 

Fin qui nulla di strano, se non fosse per il fatto che la vicenda romanzesca narrata nel volume che quegli studenti americani utilizzavano per apprendere la nostra lingua, era totalmente ambientata a Pasturo in Valsassina, e mentre i giovani discenti d’oltreoceano si impratichivano a fatica con l’idioma di Dante, si avvezzavano altresì a conoscere suoni, nomi e parole a loro non certo familiari come “Introbio”, “Grigna”, “Castello” (in nota definito “a little village just north of Lecco”) e naturalmente – parlando di Valsassina non poteva certo mancare – “stracchino” (più volte citato nel testo e definito nel glossario “a smooth, soft cheese, made in mountainous parts of Lombardy”). E l’edizione di quel testo, originariamente letterario ma trasformato in strumento didattico di apprendimento linguistico, non fu l’unica pubblicata negli Stati Uniti: una era già stata editata dieci anni prima sempre a Chicago e un’altra nel 1897 in coedizione tra New York e Boston.



Negli otto capitoli di “Fra le corde di un contrabasso” – pubblicato invece in Italia nel 1882, in appendice sulle pagine della “Rassegna Nazionale” e quindi in volume – la narrazione è guidata in prima persona dal medico condotto di Pasturo (non troppo celato portavoce del pensiero dello scrittore stesso) e ha inizio con una convinta descrizione ambientale che dimostra l’affetto appassionato che Salvatore Farina nutriva verso il territorio lecchese che ben conosceva avendovi più volte soggiornato (soprattutto a Maggianico): “In quelle vallate non ci si ammala quasi; gli uomini lavorano nelle cascine, le donne nei prati, i fanciulli si arrampicano su per i monti, accompagnando le vacche; fanno tutti una vita tranquilla, sono contenti del loro stato e lo migliorano un po’ alla volta, senza affannarsi; bevono il latte caldo delle loro bestie e l’acqua fresca, che si annunzia da lontano col rumore delle cascatelle e dei rigagnoli; poco vino e punto liquori. Così vengono su forti, campano lungamente, e non danno molto da fare al medico-condotto. Perciò io mi trovavo bene in Pasturo, e non posso ricordare quel tempo senza che mi si apra agli occhi il quieto orizzonte della Valsassina”; una rappresentazione di popolo certo idilliaca e rassicurante ma non del tutto ingenua e forse non casualmente insistita quale possibile controcanto “ideologico” alle plebi vinte e rassegnate o divorate dal bramoso desiderio della “roba” che solo un anno prima – nel 1881 – Giovanni Verga aveva descritte nel suo capolavoro verista “I Malavoglia” ambientato nel Mezzogiorno d’Italia. La vicenda del racconto è intrecciata attorno alla figura di Orazio Brighi, nato e cresciuto fra le montagne della Valsassina, poi mandato a Lecco “per farvi gli studi del ginnasio e del liceo” e quindi ritornato in Valle “con molti capelli spettinati, con molte cognizioni spettinate e con un contrabasso”. Il protagonista, romanticamente e un po’ goffamente posseduto dalla passione per la musica e alla spasmodica ricerca della somma armonia sonora contenuta all’interno della natura, per tutto il racconto si aggirerà febbrilmente col suo ingombrante (non a caso) strumento nei boschi e lungo i sentieri del Resegone, della Grigna e della Grignetta – “Su, su in alto, fino a non udire i rumori della terra; forse allora mi riuscirebbe di afferrare una nota, almeno una, dell’armonia dell’universo” – ma finirà per comprendere come la felicità fosse invece inscritta nella semplice serenità familiare di una scelta d’amore condiviso con la giovane che da lungo tempo gli era profondamente legata e che, trepidante, attendeva l’occasione per coronare il suo sogno matrimoniale.

Nelle pagine del libro sono presenti i cardini della narrativa di Salvatore Farina che per incontrare il gusto del pubblico di massa fondeva – a volte con consumato mestiere – le esigenze di una trama ad intreccio di ascendenza feuilletonistica con un’istintiva propensione allo scavo psicologico e all’analisi introspettiva, mescolando frasi e pensieri con la sottile ironia del suo umorismo bonario, ammiccante e mai censorio, arginato soltanto dalla profonda fede nella famiglia e nell’istituto matrimoniale.

Del resto, con questa semplice ricetta, Farina riuscì a diventare uno degli scrittori italiani più apprezzati e tradotti dell’epoca e certe pagine del libro ce ne fanno ben capire la ragione; come quella ironicamente culminante con questa profetica chiusa sentenziosa: “A questo mondo ci è un buon quarto d’ora per ciascuno, poi viene il quarto d’ora d’un altro”.

Forse che Andy Warhol lesse le pagine di quella dimenticata edizione americana del Farina prima di coniare la sua celebre frase, ancor oggi inossidabile refrain della nostra luccicosa e bulimica società dello spettacolo? Misteri del “pop”.

                                                                                                                             Gian Luca Baio

 

IL GRINZONE n.31