...MA L'AVRANNO PORTATA GLI ANGELI?
“Carneade! Chi era costui?” ruminava tra se don Abbondio seduto su un seggiolone con un libricciolo aperto davanti…
Chiedo scusa ad Alessandro Manzoni per aver usato questa celebre frase tratta dai Promessi Sposi, ma è stata la prima a venirmi in mente quando un giorno, ormai cinque anni fa, sfogliando la “Guida della Diocesi di Milano”, nell’elenco dei Santuari Mariani ho trovato quello di Santa Maria della Strada a Pasturo.
Figuratevi lo stupore: pensavo di conoscere tutte le chiese di Pasturo, ma questa proprio non l’avevo mai sentita nominare. Ho subito pensato ad un errore di stampa, perché se abbiamo un Santuario è senz’altro quello della Madonna della Cintura che noi veneriamo; lo stupore è però aumentato quando, continuando la lettura della guida, ho scoperto che, tra le chiese secondarie della parrocchia di Pasturo, Santa Maria della Strada esiste veramente: è la chiesa posta sulla vetta della Grigna settentrionale a fianco del rifugio Luigi Brioschi. Allo stupore è subentrata la curiosità; ho cominciato a pormi alcune domande: da chi è stata costruita? Quando e per quale motivo? Perché è un Santuario Mariano? Chi le ha assegnato quel nome?
Pensando di trovare subito le risposte, pochi giorni dopo mi sono recato in Arcivescovado presso gli uffici della Cancelleria Arcivescovile, ma stranamente non avevano alcuna notizia riguardante la nostra chiesetta, se non quelle scritte, non si sa da chi, sulla Guida Diocesana da loro pubblicata; mi hanno però consigliato di rivolgermi all’ufficio dei Beni Culturali. Un altro buco nell’acqua! Dopo aver consultato alcuni volumi dove sono registrate tutte le proprietà della Diocesi di Milano, abbiamo scoperto che sulla vetta della Grigna non esiste alcuna chiesa. L’ultimo tentativo è stato presso il Club Alpino Italiano, Sezione di Milano, ma anche li, sfogliando tutti gli incartamenti riguardanti il rifugio Brioschi, non ho trovato alcuna notizia. Eppure la chiesa è lì da quasi mezzo secolo, tutti quelli che salgono in Grigna la vedono, vanno a recitare una preghiera, sono state celebrate Messe e Matrimoni, possibile che non si trovi più la sua storia? È poi stata classificata come Santuario Mariano…
Ma qual è la differenza tra chiesa e santuario? Questa è la domanda che ho posto a diversi sacerdoti, compreso qualche monsignore della Curia milanese. La maggior parte di loro ha risposto che non c’è alcuna differenza nel denominare un edificio adibito al culto chiesa o santuario; allora un’altra domanda: se chiesa e santuario sono sinonimi, perché allora esiste un elenco dei Santuari Mariani e, delle tremila e trecento chiese Diocesane, di cui ottocentocinquanta dedicate alla Madonna, solo un centinaio sono riconosciute come tali? Di solito mi sono sentito rispondere con un “ma”?! Per un maggior chiarimento ho consultato dizionari ed enciclopedie e, alla voce Santuario, ho trovato la seguente definizione: “Chiesa eretta sul luogo di apparizioni miracolose o che contiene immagini sacre oggetto di venerazione”. Il “ma” questa volta è da parte mia; senz’altro qualche persona, magari poco allenata, salendo in Grigna, arrivata finalmente sulla vetta, avrà gridato al miracolo e avuto tutte le visioni possibili e immaginabili, ma non sono quelle che riguardano la nostra chiesa. A questo punto avevo deciso di abbandonare ogni ricerca. Che Santa Maria della Strada sia un Santuario o una normale chiesa, penso abbia un’importanza relativa; l’unico dispiacere era non poter trovare la sua storia soprattutto perché così legata a quella del nostro paese.
Mi ero così rassegnato, quando un pomeriggio di giugno del 2003, ebbi un incontro inaspettato: da un fuori strada scende un anziano signore in divisa da Scout, coi tradizionali pantaloni corti di velluto e sulla testa un cappello da Alpino con la penna bianca; mi si avvicina e mi chiede informazioni sulla strada per raggiungere il Pialeral. “Sono atteso al Pialeral - mi dice - perché domani mattina andrò in Grigna a festeggiare il mio cinquantesimo di Sacerdozio e celebrerò la S. Messa nella cappella Cenderelli”.
Rimango allibito, non avevo mai sentito quel nome! “Scusi, ma la chiesa della Grigna non si chiama Santa Maria della Strada?” gli chiedo sbalordito; la risposta è la seguente: “Non mi risulta, sono stato uno dei promotori della costruzione di quella chiesa, l’abbiamo eretta in memoria del mio amico Guido!” Poi, preso un libro dal baule della macchina, mi mostra alcune fotografie della chiesa con la didascalia “Cappella di Guido Cenderelli – Vetta Grigna Settentrionale”. “Questo libro l’ho scritto io” mi dice e, prima di accomiatarsi, me lo regala. Avevo incontrato don Romeo Peja, classe 1929, parroco di S. Enrico a Metanopoli frazione di San Donato Milanese, finalmente una persona che avrebbe potuto aiutarmi a proseguire le mie indagini. Così è stato, dopo alcuni mesi ho fatto visita a don Peja e, grazie al suo racconto e alle notizie che mi hanno dato i familiari di Guido Cenderelli, sono riuscito a ricostruire la storia della chiesa della Grigna.
All’inizio del 1943, quando la guerra tocca Milano con i bombardamenti, Guido e Romeo, due amici compagni di scuola, lasciano la città con le loro famiglie e per tre anni rimangono “sfollati” in Valsassina, a Cremeno. È qui, ai piedi delle Grigne, in un’atmosfera di vita libera anche se dura, che si sviluppa in loro una grande passione per la montagna e in questi anni percorrono tutti i sentieri delle montagne valsassinesi. Dopo il rientro a Milano nel 1945, alla fine della guerra, i due ragazzi riprendono gli studi: Romeo Peja entra in seminario e sarà ordinato Sacerdote nel 1953, mentre Guido Cenderelli, dopo aver frequentato il liceo A. Manzoni, si iscrive alla Facoltà di Scienze Geologiche dell’Università di Milano, da cui uscirà laureato a pieni voti nel 1952. L’amore e la grande passione per la montagna lo portano a frequentare la Scuola di Roccia Parravicini di Milano. Al termine degli studi svolgerà il servizio militare come ufficiale nel Corpo degli Alpini. Guido e Romeo, pur avendo scelto due strade diverse hanno sempre coltivato la loro amicizia, il loro amore per le Grigne di cui sono profondi conoscitori; entrambi, molto legati allo Scoutismo, ne avevano percorso tutte le tappe nel Riparto ASCI Milano IV. Nato a Milano nel 1930, Guido Cenderelli è morto il 12 agosto 1954 insieme all’amico Cosma Nerio, travolti da una slavina, durante un’ascensione al Mont Blanc du Tacul, sul massiccio del monte Bianco. Pochi mesi prima, il 31 dicembre 1953 un’altra grande tragedia in montagna: tre giovani Scout, Gianpaolo Colombi, Franco Colombo e Riccardo Vannotti del Riparto ASCI Milano IV, avevano perso la vita in Val Formazza durante un’escursione al Passo del ghiacciaio del Gries. Per commemorare queste vittime unitamente al tenente degli alpini Gianfranco Corrazza, caduto in Albania durante la seconda guerra mondiale, la famiglia Cenderelli e gli Scout decisero di erigere una Cappellina sulla vetta del Grignone.
Grazie alla collaborazione del Presidente del C.A.I. Milano, dott. Carlo Lucioni, ho potuto leggere gli articoli scritti, tra il 1960 e il 1961, dai familiari di Guido Cenderelli sullo “Scarpone”, articoli di cui riporto di seguito alcuni brani.
“Quando nel 1955 si decise di erigere una Cappellina sulla vetta del Grignone, ci si trovò di fronte a innumerevoli insospettate difficoltà, che misero a dura prova la buona volontà degli amici che si erano assunti questo compito, primo fra tutti il Rag. Luigi Lucioni, Ispettore del Rifugio Brioschi che al “suo” Grignone ha dedicato con ammirevole costanza la sua fervida attività. In un primo tempo venne progettata dal compianto architetto Ciapparelli, con la collaborazione del geometra Paolo Crepaldi, una costruzione in pietra, di tipo classico, da erigersi di fianco al Rifugio. Quando si trattò di valutare il costo dell’opera, ci si trovò di fronte a una spesa quasi sbalorditiva richiesta per il solo trasporto in vetta, a dorso di mulo, dei materiali occorrenti (sabbia e cemento) non assolutamente reperibili in luogo.
Si dovette allora ripiegare su altre possibili soluzioni, ma il problema non era facile e fu risolto solo a seguito di un’audace e brillante iniziativa dell’ing. Franco Sironi, che lanciò l’idea di scostarsi da ogni vecchia, anche se nobile tradizione, per affrontare il problema con idee nuove e con mezzi nuovissimi. Nacque così, dalla collaborazione dell’ing. Sironi – geom. Crepaldi, e fu accolto con entusiasmo, il progetto di una costruzione in metallo e vetro, di concezione veramente originale, che avrebbe eliminato qualsiasi trasporto di sabbia e cemento, potendo essere prefabbricata al piano e poi montata sulla vetta con la massima facilità e senza richiedere opere murarie.
Il problema del trasporto in vetta non era però ancora risolto, data la dimensione dei vari elementi in metallo e soprattutto delle grandi lastre di cristallo. Fu un’altra brillante idea dell’ing. Sironi che permise di superare una difficoltà che sembrava in un primo tempo insormontabile. Pensò l’ing. Sironi di rivolgersi al Comando della S.E.T.A.F. in Italia per chiedere l’intervento dei grossi elicotteri in dotazione a detto Comando, sicuro che la nobiltà dell’intento avrebbe indotto il Comando stesso a dare la propria adesione. Il che avvenne con una sollecitudine veramente ammirevole e per la quale desideriamo rinnovare la nostra commossa gratitudine”.
Nei primi giorni del mese di maggio del 1960 tutte le parti prefabbricate erano pronte; arrivate a Lecco tramite il corriere Bettega, venivano prese in consegna da Franco Camesaschi e portate nella pianura di Pasturo. “...Dopo parecchi voli di prova e alcuni tentativi frustrati dall’inclemenza del tempo, gli elicotteri americani, portarono sulla vetta del Grignone, senza il minimo incidente, in un primo tempo tutta l’ossatura metallica, i pannelli di duralluminio della Montecatini e poi le grandi vetrate della ditta Fontana di Milano realizzate con un cristallo speciale, infrangibile, appositamente studiato dalla Saint Gobain. La ditta Delaiti di Bolzano aveva curato la prefabbricazione e il montaggio in vetta, mentre la direzione dei lavori veniva seguita dall’ing. Molteni di Mandello”.
Terminato il montaggio, la chiesa viene completata da due elementi importanti ed essenziali: l’altare e la campana. Il primo, l’altare di bronzo, opera di Paolo Bregni, allora studente di pittura e scenografia all’Accademia Artistica di Brera, oggi uno dei più affermati scenografi a livello mondiale.
La campana, realizzata dalla Fonderia di Bassano del Grappa a cura degli amici di quella città, reca inciso un motto latino che veniva usato su tutte le campane delle navi nel Medio Evo: “Vivos voco, mortuos plango, fulgora frango” (Invoco i vivi, piango i morti, sconfiggo i fulmini).
L’inaugurazione ufficiale avviene Domenica 25 giugno 1961: Monsignor Andrea Ghetti, prevosto di Santa Maria del Suffragio a Milano e Assistente Generale degli Scout della Lombardia, su mandato dell’Arcivescovo di Milano Cardinal Giovanni Battista Montini, consacra la chiesa chiamandola Santa Maria dei Sentieri (col passare degli anni verrà poi erroneamente chiamata Santa Maria della Strada), nome più che appropriato perché in quel luogo confluiscono tutti i sentieri che portano alla vetta del Grignone.
“...Alla cerimonia sono presenti i familiari delle vittime, gli Scout e i Dirigenti del C.A.I.. Al termine della Santa Messa il rag. Cesare Lentesi, vecchio e fedele socio del C.A.I., ha ricordato i nomi dei Caduti sulle montagne e, a nome delle famiglie delle vittime, ha consegnato la Cappelletta alla sezione di Milano del C.A.I.
Il Presidente della Sezione, ing. Casati Brioschi, nel prenderla in consegna, ha ringraziato i donatori a nome di tutti gli alpinisti, assicurando che la Cappella sarà conservata, come un dono prezioso che permette di avvicinarsi di più a Dio”.
Il 9 luglio 1981, il Cardinal Carlo Maria Martini, da pochi mesi Arcivescovo di Milano, in forma privata, sale in vetta al Grignone partendo da Pasturo. Lo accompagnano Mons. Luigi Testore (suo segretario), Mons Natale della Grisa (prevosto di Primaluna), don Tullio Vitali (parroco di Pasturo), don Antonio Brunello (parroco di Indovero e Narro), Piero Bergamini, Carlo Doniselli, Enrico Mauri e Alberto Nogara. L’Arcivescovo e i Sacerdoti, dopo aver concelebrato la Santa Messa nella Cappellina, grazie all’ospitalità di Piero Bergamini, si sono rifocillati al Rifugio Brioschi. In ricordo di quella giornata, Piero riceverà una medaglia di bronzo dorato con l’effige della Madonna e lo stemma Arcivescovile e una fotografia scattata in vetta al Grignone con la seguente dedica: “A Piero Bergamini con la mia benedizione + Carlo Maria Arcivescovo”.
Dopo cinquant’anni, siamo finalmente riusciti a conoscere la storia della Chiesetta del Grignone.
Da parte mia è doveroso ringraziare tutte le persone che mi hanno aiutato nella ricerca: i familiari di Guido Cenderelli (la sorella Fioretta, il fratello Aldo e il cognato Paolo Crepaldi); don Romeo Peja e il Presidente del C.A.I. Sezione di Milano, dott. Carlo Lucioni.
Gigi Orlandi
IL GRINZONE n.11
PERCHE' VIALE TRIESTE A PASTURO?
Con la delibera n. 21 del 1 luglio 1954, il Consiglio Comunale approvò all’unanimità la proposta di dedicare una Via alla poetessa Antonia Pozzi. E’ interessante rileggere la verbalizzazione delle parole del Sindaco, Vittorio Doniselli:
“Sottopongo all’approvazione dei signori Consiglieri la decisione presa dalla Giunta Municipale nella sua ultima seduta, perché sia intitolata al nome di Antonia Pozzi – Poetessa e Scrittrice - la strada comunale che partendo dalla fermata della corriera si congiunge al cimitero. La decisione di cui sopra non è ovvia ma necessaria poiché serve principalmente conservare nella memoria dei pasturesi, e quindi tramandare ai posteri, la nobile figura della nostra gentile e grande poetessa che con le sue opere e scritti ha arricchito il patrimonio letterario della nostra amata Italia (…)
Sento il dovere di soffermarmi su questo argomento, poiché le doti e le virtù di una meritevole persona siano ben conosciute ed apprezzate da tutti indistintamente. Antonia Pozzi si spense in assai giovanissima età, quando la vita apriva nuovi orizzonti e più vasto si presentava a Lei il campo della materia da trattare nella sua complessa arte che si conclude nel binomio poesia e musica. E infatti la Sua poesia è tutta una lirica le cui corde toccate da mani ed animo gentile, vibrano or liete ed or tristi, e sfociano in un cantico di purezza e di bellezza che fanno sentire la grandezza del creatore. Ella dorme il Suo sonno eterno nel nostro cimitero. In questa nostra terra ove ancora sono vivi i ricordi del Manzoni e del Grossi.
Pasturo ha molto beneficiato durante la vita della gentil poetessa poiché è saputo e risaputo quanto essa si prodigava per il bene della povera gente e quanto fu da questa compianta. Ed i suoi genitori Grand’Uff. Avv. Roberto Pozzi con la gentile consorte donna Lina sempre più si adoperano a favore sia delle locali istituzioni sia della popolazione tutta, di cui si è sommamente grati per le grandi opere di bene che vengono compiute. Oggi stesso come già a conoscenza è stato dalla sullodata famiglia Pozzi elargito un contributo di un milione per l’asfaltatura della traversa principale del paese. (…)”.
Sempre nella delibera si legge che “Queste ultime parole del presidente vengono accolte con acclamazione; dopo di che il Consiglio delibera per acclamazione di intitolarsi al nome di “Antonia Pozzi – Poetessa e Scrittrice” la strada comunale di cui in premessa.
Ma il 18 novembre dello stesso anno (1954), con un’altra deliberazione – la n. 36 del 18 novembre – il Consiglio Comunale cambia denominazione alla stessa Via. Cosa era successo? Il Sindaco legge una lettera dell’Avv.to Pozzi che dice:
“Mia moglie ed io abbiamo appreso a suo tempo con viva commozione la deliberazione dell’On.le Consiglio Comunale di nuovamente onorare la nostra compianta Figliuola Antonia intitolando al suo nome il Viale già “dell’Impero”. Per altro, ben riflettendo su questa iniziativa, della quale rimaniamo molto grati, siamo venuti nella convinzione che non sia il caso di attuarla: in primo luogo perché il nome di Antonia è già legato all’Asilo Infantile, e anche questo per desiderio unanime dei padri di famiglia; mentre altri ricordi di Lei rimangono nella Chiesa, al Cimitero e sulla facciata della nostra casa.
Questo è già molto; non riteniamo di dover attribuire il nostro nome familiare alla maggiore arteria del paese, che assai più opportunamente potrà essere dedicata ad un nome di importanza nazionale, quale ad esempio quello di Trieste, recentemente restituita all’Italia. A questa convinzione ci induce anche la modestia e la semplicità di Antonia, ben note a coloro che l’hanno conosciuta ed amata, anche e sopra tutto per queste sue virtù.
La preghiamo perciò, Egregio Signor Sindaco, di voler comunicare questo nostro desiderio all’On.le Consiglio, con la preghiera di volerne prendere atto, rinnovando in pari tempo allo stesso il nostro più vivo ringraziamento per la considerazione e l’affetto di cui esso ha voluto offrirci nuova prova a nome dell’intera popolazione”.
Il Consiglio Comunale, preso atto della lettera, delibera quindi di modificare l’intitolazione del “Viale Antonia Pozzi” in “Viale Trieste” e di esprimere comunque alla famiglia Pozzi il rincrescimento dell’Amministrazione per la decisione.
Guido Agostoni
IL GRINZONE n.29
1927: BAJEDO AGGREGATO A PASTURO
Il regio Decreto dell’8 dicembre 1927 n. 2441 chiudeva la vita del comune di Bajedo aggregandolo a quello di Pasturo. I 258 abitanti del “villaggetto” sotto la Rocca famosa cui aveva dato nome per oltre un millennio si trovarono di colpo “pasturelli”.
In quell’anno l’operazione di concentramento di comuni fu molto ampio ovunque e in Valsassina il 23 giugno aveva toccato Bindo aggregato a Cortenova, mentre l’11 novembre Vimogno, Barcone, Pessina e Cortabbio venivano uniti a Primaluna; le aggregazioni continuarono l’anno successivo: il 15 aprile Crandola con Vegno passò a Margno; lo stesso giorno fu aggiunto a Casargo anche Indovero; nella confinante Valvarrone i comuni di Tremenico, Introzzo e Sueglio divennero cosa unica con Vestreno capoluogo e pure Perledo fu sacrificato per Varenna.
Secondo l’Orlandi, già a partire dalla costituzione di un’unica parrocchia nel 1343 si era avuto fra Bajedo e Pasturo “una lenta evoluzione psichica, incessante benché non apparente”, per cui il Decreto Reale del 1927 era una naturale conclusione che venne accolta “senza recriminazioni e senza rimpianti”. Peraltro non sembrerebbe che la vantata evoluzione fosse così scontata per gli abitanti di Bajedo, poiché tanto ebbero a dire ai tempi di Maria Teresa d’Austria, obbligandosi a malincuore a cedere a Pasturo una porzione di territorio per salvaguardarsi l’indipendenza.
Altre aggregazioni erano già avvenute con il regno napoleonico, dettate per lo più da questioni funzionali, per cui ad esempio Barzio ebbe l’intero controllo dell’altopiano e Bajedo finì concentrato con Pasturo attraverso il decreto del Regno d’Italia (Napoleonico) del 4 novembre 1809. Al ritorno degli Austriaci nel 1816 però Bajedo si affrettò a rivendicare il ripristino dell’autonomia, che rimase pure dopo l’unità d’Italia, quando tante comunità dovettero sciogliersi generalmente per difficoltà finanziarie. Fu piuttosto il comune di Introbio che nel 1870 chiedeva a sé l’unione di Bajedo e Pasturo: le due comunità però rifiutarono davanti al sottoprefetto dato che la popolazione non avrebbe ricavato nessun vantaggio ed anzi gravi incomodi.
A Pasturo il podestà Ferdinando Merlo, insediatosi dopo due anni di vacanza dall’ultimo sindaco, prese l’iniziativa con delibera del 6 agosto 1927 per ottenere a Pasturo non solo Bajedo ma pure una porzione del territorio di Barzio sulla piana del fiume, comprendendovi l’ubertoso Prato Buscante dove sorgevano anche le note fornaci del Merlo stesso. Se l’istruttoria rimase favorevole a Barzio, che sollevò un gran polverone nell’opporsi a tale progetto, fu comunque velocissima per Bajedo, dove dal 1926 il Merlo già “regnava” quale podestà in comunione con Pasturo.
Era dunque, come si sa per gli altri casi, una operazione politica, da una parte di prestigio per collaudare le nuove forme di governo volute dal fascismo, e dall’altra per meglio controllare popolazioni non certo domate dal partito e dalle cosiddette riforme del 1923-1924. Ciò che è del tutto evidente per l’unione dei vari comuni in Lecco, avvenne anche per la Valsassina, dove il cartello dei “demoradicali cermenatiani” si era andato sfaldando da tempo, a favore del partito popolare, del quale nel 1920 era presidente circondariale il ragioniere Giovanni Battista Merlo di Pasturo e per il quale nella valle reggeva il comitato locale la maestra Bambina Ticozzi, un tempo simpatizzante di Cermenati. A Pasturo e a Bajedo nelle elezioni del 1921 (ma già nel 1919) il partito popolare era risultato vittorioso, come in tutta la Valsassina e il circondario stesso di Lecco: d’altra parte fin dal 1908 era evidente una certa presa delle Leghe cattoliche, molto attive nel campo della cooperazione, dei braccianti, degli allevatori e del credito con la cassa rurale di Cremeno.
Nonostante le squadracce fasciste della Valsassina fossero già in azione nel 1922, per la consultazione politica del 1924 il “listone” (o lista nazionale fascista-demoradicale) a Bajedo pareggiò e a Pasturo superò di un solo voto il partito popolare; il “listone” rimase comunque fortemente minoritario se si considera anche il risultato delle tante formazioni di opposizione, fra cui la lista dei contadini, che molti voti raccolse nella valle. Per di più si registrò nei nostri comuni come in tutta la Valsassina una fortissima astensione degli elettori. Era bene quindi per il fascismo assicurarsi la valle, eliminando i sindaci non allineati, attraverso il pretesto delle unioni amministrative proposte come più efficaci, mentre in realtà i nuovi comuni erano visti come le cellule dello Stato “integralmente nazionale” proclamato da Mussolini, cioè una proiezione del governo; per questo dovevano essere privi di rappresentatività democratica della gente, prima espressa attraverso i partiti, man mano sciolti o messi in mora. Così già nel 1924 si predisponeva il processo di unificazione, sostituendo ai sindaci un commissario, il cavaliere Ferdinando Merlo, un industriale influente in grado di indirizzare alla normalizzazione una forzata amministrazione unificata. Abili, paternalisti, ma improntati a zelo collettivo, simili persone erano capaci di investire in una immagine di efficienza la vincente più ricca borghesia da tempo conquistata al fascismo.
Certo si avviarono anche opere utili, in specie nel capoluogo, ma Bajedo intanto perse il Circolo vinicolo e il dopolavoro La Rocca, assorbiti dalle strutture del Comune sindacale-cooperativo, come a Pasturo avvenne con la stessa Banda,fondata nel 1922 e "ricostituia" nel 1926.
Angelo Borghi
IL GRINZONE n.21
LA FAMOSA ROCCA DI BAIEDO
Chi percorre la Valsassina, e non ha lo sguardo frettoloso o la vista ottenebrata, non può almeno una volta non soffermare la sua attenzione su di essa: sul piccolo e scontroso scoglio di calcare che quasi a dispetto della Pioverna sembra lì per strozzarne il corso alterno, per rendere angusto il fluire della Valle, per consentire a chi nel passato voleva infierire di avere un punto di minaccia e di forza prezioso. Su quello zucco tondo ma inaccessibile, ora oggetto di interesse per lo più solo di valenti climbers multicolori, non per nulla una volta sovrastava una arcigna fortificazione, la Rocca di Baiedo.
Gli abitanti di Baiedo e di Pasturo ne hanno sempre conservato un certo orgoglioso ricordo, addirittura uno degli ultimi sagrestani della Parrocchia era ancora pochi anni or sono additato come “il signore della Rocca”, custode della sue memorie e dei suoi segreti. I turisti non troppo intraprendenti ne hanno fatto spesso meta delle loro misurate escursioni, tuttavia la storia e le vicende di quell’estremo rudere sono per i più qualcosa di oscuro e leggendario, o magari semplicemente di trascurabile.
Ma anche nei paesi più piccoli, nelle comunità più disattente esistono e sono sempre esistiti quelli che le curiosità le vogliono approfondire, quelli che il passato lo vogliono per quanto consentito ricostruire. Così la nostra Rocca può anche vantare di essere stata l’oggetto degli studi e della passione di personaggi non comuni: trascurando l’incerto ricordo che forse ne ebbe il grande Leonardo da Vinci ingegnere d’armi e di rocche, in epoca moderna la fortificazione ha attirato gli studi di due benemeriti della storiografia valsassinese, Andrea Orlandi e Pietro Pensa. Questi due meritori campioni dell’erudizione locale hanno dedicato energie e ingegno a scoprire e ricostruire le vicende quasi del tutto obsolete dell’antico baluardo; e oggi il loro egregio lavoro ha trovato moderno compimento nell’integra-zione che lo studioso ed erudito lecchese Angelo Borghi ha dedicato all’argomento, dando così il modo di realizzare il bel volume che riunisce mirabilmente tutto quello che occorre ed è possibile sapere modernamente sulla Rocca di Baiedo, grazie agli scritti dei nostri tre studiosi, editi con pregevole cura dall’editore Bellavite.
Impossibile riassumere in poche parole il racconto delle vicende della fortificazione, noi confidiamo che gli abitanti di Pasturo – cui l’Amministrazione Comunale con saggia ma ai giorni nostri assai rara sensibilità ha donato il volume con una copia a famiglia - avranno la pazienza di leggerlo, aiutati anche dal bellissimo e puntuale apparato iconografico. Scopriranno storie di soldati e di battaglie, di intrighi di potenze e di vie di transito, ma vi troveranno anche molti squarci di autentica vita grama dei tempi andati, molte testimonianze di quale era una volta la vita sui nostri monti. Prepotenze e insidie non mancavano e non mancano tuttora, ma a ognuno di noi non potrà non stringersi un poco il cuore a immaginare i freddi inverni tra quelle mura pietrose, in quel piccolo castello (quasi sempre esiguamente popolato) dove il cibo raramente abbondava, dove la vita scorreva faticosa e disagevole. E chissà allora che guardando quello zucco roccioso cui ormai siamo tanto abituati non si possa sentire un senso nuovo di ammirato rispetto per chi qui ha vissuto e faticato, quando certo la valle era meno comoda e affabile, meno accattivante e docile.
Renato Marchi
IL GRINZONE n.20
1942-1945. PASTURO E LA GUERRA
Nel 1942 il podestà Pozzi si dimetteva dopo sette anni di attività.
Passarono mesi prima che venisse sostituito da Isaia Bonasio, con comunicazione del prefetto Rino Parenti in data 17 aprile 1943.
Nel frattempo, nei primi mesi di quell’anno, era nato a Lecco un comitato di azione antifascista, che comprendeva anche don Giovanni Ticozzi, nato a Pasturo nel 1897 e preside del Liceo Classico.
Dopo l’8 Settembre 1943, quando le montagne diventano il rifugio di centinaia di sbandati e reduci, un gruppo si stabilì anche sopra Pasturo, al comando del colonnello Morandi e con i centri di raccordo a Maggio, Barzio e Introbio.
La mattina di domenica 17 ottobre una divisione di alpini bavaresi, guidati dai fascisti, iniziava il rastrellamento delle formazioni delle montagne valsassinesi. Sul giornale clandestino “L’Unità” si leggeva: “Donne, vecchi, bambini venivano presi particolarmente di mira per atterrire. A Pasturo la popolazione fu trascinata nella piazza. A Ballabio la Messa venne interrotta violentemente e i due preti arrestati”. Mentre si hanno le mortali sparatorie sui ragazzi dei monti di Primaluna e di Introbio, nel pomeriggio battevano le pendici sopra Ballabio e Pasturo, diretti verso i Resinelli, il cui gruppo si era sottratto allo scontro defilandosi per la Val Calolden. Non grandi risultati con quel rastrellamento, ma una lezione di terrore sì.
Giungevano frattanto anche a Pasturo nell’autunno 1944 le disastrose notizie dai fronti balcanico e russo; il 21 settembre il Centro di assistenza della RSI di Como avvisava che il distretto aveva liquidato una serie di pratiche per 14 soldati del luogo dispersi in Russia, con un vaglia per un’indennità una tantum di lire 454: ricorrono i nomi dell’avv Francesco Invernizzi, figlio di Giacomo, Tomaso Ticozzi, Martino Galbani, sergente del 5° Alpini, ecc.
Nel 1944 la valle era un fermento di partigiani. Il Capo della Provincia Renato Celio aveva delegato a guidare le Brigate Nere, che tenevano il controllo della Valsassina, il maggiore Noseda: a lui toccava il compito di guidare il più ampio attacco alle formazioni partigiane delle valli. Il 10 ottobre, soprattutto per rompere il collegamento con la Resistenza valtellinese, otto colonne con 4000 uomini delle S.S. Italiane salirono da Dervio e Bellano contro il grosso della Brigata Rosselli, attestata fra Premana e Introbio: furono i giorni degli scontri, delle torture, delle fucilazioni. I fascisti puntarono poi su Pasturo e la Brigata Poletti.
Due rapporti del 20 settembre e 20 ottobre 1944: il primo dettato dal Comune di Pasturo, l’altro dal prefetto reggente Bettinelli al sindaco, danno dettagli sulla situazione di Pasturo.
Venne occupato l’intero paese, occupati municipio e scuola, requisite le radio della scuola e del municipio e la macchina per scrivere, le radio dell’avv. Pozzi, di Natale Rosa e di Luigi Redaelli, distrutte le ville Amalia e Bonasio. La maestra comunale Bambina Ticozzi, nata nel 1893, venne arrestata e inviata a S. Vittore in attesa di partire per la Germania come da condanna. Dodici giovani, pur muniti di regolare esonero dalla leva per motivi di lavoro, vennero condannati alla deportazione ed inizialmente portati nel carcere di San Vittore a Milano: fra loro Ferdinando Artusi, Ernesto ed Eusebio De Martini, Giuseppe Galbani, Battista Merlo, Giancarlo Orlandi, Giovanni Orlandi, Giuseppe Orlandi, Mario e Martino Orlandi, Andrea e Francesco Ticozzelli.
Poi i militi salgono la Grigna, devastando i ricoveri, uccidono Giovanni Battista De Dionigi, ferendo pure un’altra persona; danneggiano le baite a Cornisella e alla Coa, distruggono il rifugio Pialeral, di cui era custode la guida alpina Giovanni Gandin e perfino il Rifugio Brioschi, in vetta alla Grigna, tenuto da Giovanni Agostoni.
In un mese di rovine, la valle vide più di cento morti, quasi 500 deportati, 700 baite e rifugi distrutti, due brigate partigiane quasi annientate.
Era allora podestà, come detto, il Bonasio, e segretario comunale dal 28 agosto Rinaldo Bonini.
Quando Bonasio per motivi di salute si dimise, il capo della Provincia, su consiglio del Noseda, il 6 febbraio 1945 lo sostituiva con il ragionier Mario Invernizzi, già segretario, che veniva nominato commissario prefettizio a titolo gratuito.
Il 10 maggio 1945 si tenne l’Assemblea dei capifamiglia che nominava provvisoriamente una giunta comunale nelle persone di Giuseppe Arrigoni, Ferdinando Artusi, Giovanni Bergamini, Mario Invernizzi di Giuseppe, Andrea Pigazzi, Giuseppe Agostoni e Francesco Ticozzi fu Giuseppe. Costui, come anziano, presiedette il giorno 13 maggio alle ore 11 la riunione con la nomina del Sindaco, che fu Mario Invernizzi, già designato dal CLN, assistito dal segretario Lucindo Magni. Questo è quanto risulta dai verbali dell’epoca.
Ma vi erano ancora molti soldati di cui non si avevano notizie…
Nel maggio 1948 da Como si stila un elenco di 18 irreperibili nel settore russo balcanico, anche se un appunto a matita segnala 19 irreperibili e 3 morti. Un successivo elenco inviato all’Ass. Naz. Caduti di Como il 2 dicembre 1949 indica 22 nomi di soldati irreperibili, spariti nel 1943 in Russia, segnalando pure due morti: Giovanni Bonfanti, morto il 22 gennaio 1945 a Hilden in Germania, e Tomaso Rosa morto il 6 luglio 1944 a Ponte a Emma in Toscana.
Alcuni dei dispersi fortunosamente riuscirono a rientrare, come Tomaso Ticozzi. Sempre nell’agosto 1948 si versavano gli indennizzi per 8 prigionieri di guerra mentre altri prigionieri riuscirono a rientrare, prima 3, poi 11 reduci, poi altri 9, infine gli ultimi 8.
Angelo Borghi
IL GRINZONE n.11