CINQUE SECOLI FA LA FINE DI SIMONE ARRIGONI DI BAJEDO


Nella fredda mattina del 27 marzo 1507 il carro dei supplizi cigola nelle strade di Milano: conduce alla piazza del castello un uomo incatenato; è vestito di velluto bruno e ostenta una collana d’oro, un signore che incontra l’ultimo destino; si inginocchia alla mannaia, rotola il capo, le membra sono squartate e i servitori avvolgono in carriole i brani che appenderanno alle sei porte di Milano.
Finiva così la storia di Simone II Arrigoni, castellano della Rocca di Bajedo, e iniziò la leggenda: forse traditore ma certo tradito dai suoi compagni, come indica Leonardo da Vinci in una nota del Codice Atlantico, prepotente violatore della Valsassina ripreso nel romanzo del Lasco il bandito.
In realtà non fu che uno di quei molti condottieri che salirono e caddero nei tempi burrascosi delle guerre per il dominio d’Italia. Suo nonno Giacomo, capo dei ghibellini di Valtaleggio, dovette lasciare quella valle occupata dai veneziani nel 1428; suo padre Simone divenne un fedele collaboratore dello Sforza a Milano e partecipò alla ripresa della Valsassina nel 1453. Simone II ottenne il titolo di cavaliere per il suo ingegno, fu amico del Moro e da lui nominato capitano della Martesana dal 1494 al 1497.
Era il momento in cui il precario equilibrio degli Stati italiani stava cedendo; il Moro aveva brigato prima con il re di Francia, poi con l’imperatore per sostenere il suo dominio e, come primo destabilizzatore della politica italiana, si trovava a fronteggiare il nuovo re di Francia, Luigi XII, nipote dei Visconti e quindi pretendente al trono milanese. I nobili lombardi non ebbero allora, come non ebbero neppure nei decenni seguenti, la cognizione di quanto stava per avvenire dell’Italia, occupati invece ai propri interessi. L’Arrigoni, provato dalle alte tassazioni della guerra, entrava nella congiura di Gian Giacomo Trivulzio e uccideva con i suoi scherani Antonio Landriano, tesoriere e consigliere del duca. Fuggito il Moro, nel 1499 il Trivulzio tenne Milano a nome del re francese, alla cui entrata in città Simone stesso gli procedeva accanto in lunga veste d’oro insieme con i maggiorenti congiurati.
Ebbe subito tanti onori e tanti denari: terre del Landriano, dazi a Milano e sul Po, il governatorato di Lecco, la Rocca di Bajedo e la signoria della Valle. Inviso naturalmente ai lecchesi, le cui più ricche famiglie erano inaffidabili verso l’uno o l’altro signore, preferì consolidare il suo potere in Valsassina: egli diceva per la sua famiglia e per la gloria, forse invece per acquistarsi un piccolo dominio autonomo da gettare sul piatto della bilancia in altri futuri equilibri politici. Ideò per la Rocca un grande piano di ampliamento, considerandola come il perno del suo dominio, senza tenere conto che ormai le guerre si vincevano con ampi eserciti e non con un manipolo di guerrieri, con il controllo di territori e non con un castello isolato, e specialmente in Valsassina dove i Torriani contavano ben più di lui sulla popolazione. Certo forse tali concetti potevano ancora interessare Venezia, che per trattati con la Francia o l’Impero credeva di ottenere qualche altra terra lombarda. Vacillando la fedeltà dei principi milanesi verso la Francia, appunto con Venezia l’Arrigoni iniziò ad avvicinarsi nel 1504, chiedendo non premi ma considerazione militare e politica. Simone si era attorniato di 250 soldati e, in vista di un cambiamento delle cose, taglieggiava di continuo la sua valle. Nel 1506 riprese a premere sugli ambasciatori di Venezia e l’intrigo venne alla luce in Milano. Non si piegò a discolparsi, ma fu bandito dal maresciallo Trivulzio, valendone la sua cattura ben 1000 ducati. Chiuso nella Rocca assisteva all’inutile assedio da parte delle truppe mercenarie del Pappacoda di Napoli. Ma onori e denaro fanno gola; il suo stesso capitano Gerolamo Pecchio, in una rigida notte d’inverno, lo tradiva, distraendo con vino e con gioco i soldati ed aprendo le porte agli emissari del re francese.
Era il 27 febbraio 1507 e l’Arrigoni a Milano dovette per un mese subire supplizi e processi. Tentò di salvarsi dichiarandosi parte di una congiura ordita direttamente fra il doge di Venezia e il maresciallo Trivulzio, mene che poi ritrattò, lasciando comunque tanti dubbi che il Trivulzio se ne corse in Francia a spiegare l’accaduto al re.
Un mese dopo chiuse la sua vita sotto la mannaia, lasciando ben poco alle figlie e qualche denaro all’Ospedale Maggiore.
In mano la Rocca ai Francesi, la sua manutenzione apparve gravosa per la gente della Valle; nel 1513 i Torriani ottennero dal Trivulzio che venisse smantellata. Finiva così anche la storia di una grande fortezza, similmente ad altre rocche del ducato, resti anacronistici di un modo di combattere ormai desueto.  

                                                                                                                                                                                                        Angelo Borghi


IL GRINZONE n.18