UNA DINASTIA DI INTAGLIATORI: I PIGAZZI DI PASTURO

 

Negli Stati d’anime delle parrocchie di Valsassina, degli anni 1574-1578, incuriosisce la scarsa presenza di falegnami o maestri legnamari, che ci si aspetterebbe piuttosto ampia per un territorio ricco di essenze arboree.

Su 725 persone di cui è indicato il mestiere, figurano solo 16 falegnami, sette dei quali concentrati a Narro, specializzati in scagne ossia seggiolame; altri si trovano a Margno, Taceno, Introbio, Barzio, Cremeno, Cassina e uno a Pasturo.

Si trattava del “legnamero” Pietro Pigazzi, appartenente al gruppo da lungo tempo detto della Molinera o più brevemente dei moliner. Mentre altri del casato si stabilivano a Venezia arricchendosi, come d’uso, nella ferrarezza, questo ramo continuò a possedere un molino sul Grinzone, segnalato nell’estimo comunale del 1673 e nel Catasto del 1754: molino cui era aggiunta una macina da olio e che apparteneva allora a Ventura o Bonaventura e Giovan Domenico fu Pietro, che sono gli ultimi noti di una vera dinastia di falegnami ebanisti.

Dal tardo Cinquecento infatti, fino alla metà del Settecento, abbiamo notizie di una attiva vitalità in tale settore di questi Pigazzi per le chiese del paese e della valle, fatto raro, almeno per quanto ci dicono finora i documenti. Per le riforme intraprese dai due Borromeo, i templi richiesero una quantità di interventi di adeguamento delle più diverse strutture, per sottolineare soprattutto la visuale sacramentale e quella cristologico-eucaristica, divenuta centrale nella concezione stessa dello spazio delle chiese. Gli adeguamenti in realtà avvennero con molta lentezza e sulla metà del Seicento, forse anche per le devastazioni operate dalla peste del 1630 e dai soldati del Rohan nel 1636, numerose sono le ingiunzioni di delegati e vicari per il rifacimento o la fabbricazione di altari, tabernacoli, battisteri e confessionali. La dotazione nel corso del Seicento deve essere stata effettivamente alta, per quanto poco sia a noi pervenuto; rammentiamo però anche le nutrite spogliazioni di arredi barocchi, anche di grande rilievo, attuate nelle sacristie della valle negli anni 1965-1980 e finiti nelle mani degli antiquari. Comunque, fra atti e arredi, l’opera dei Pigazzi è ancora abbastanza riconoscibile e rappresenta per ora l’unica documentazione apprezzabile di una specie di scuola locale.

Pietro Pigazzi nel 1583 elaborò il tabernacolo dorato e dipinto dell’altare maggiore, probabilmente il tempietto su gradini che serviva all’esposizione eucaristica, divenuto il punto focale della chiesa secondo la concezione tridentina. Come in altri casi (Mandello, Abbadia, Bellagio, Asso) costituì certo il nucleo di una di quelle composizioni barocche articolate e trionfali, ricche di statue e angeli, come un piccolo Paradiso in terra, che a Pasturo fu condotta nel 1647 dall’abile intagliatore comasco Paolo Lucino, che aveva costruito confessionali perduti a Mandello e compirà nel 1658 il ciborio del battistero di Castello di Lecco, molto simile a quello di Lenno. A questa scomparsa “macchina d’altare” collaborarono anche Giovan Domenico e Marco Pigazzi, appartenenti alla quarta generazione di falegnami: i loro contatti col Lucino e con l’altro artista comasco Lorenzo Spina, cui si possono attribuire parte degli splendidi arredi della chiesa di Esino, potrebbero aver contribuito ad elevare la loro pur attenta falegnameria in forme artisticamente più complete. Certo non è possibile escludere che la consorteria dei Pigazzi si appoggiasse per intagli e statue a qualche altro artista, ciò di cui però non si ha traccia documentaria.

 

A Pietro, il fondatore della dinastia, subentrarono i figli Cipriano e Domenico, che nel 1609 attuarono la porta grande e un confessionale a Pasturo.

Emerse poi Pietro figlio di Domenico, che con Raffaele Merlo lavorava nel 1628 un credenzone per i palii in patria; nel 1631 è chiamato a Barzio per un vestaro, cui seguì un altro armadio nel 1634 eseguito con i fratelli: si era formato ormai un gruppo di valenti falegnami, il cui lavoro più interessante cade nel 1639 con il coro di S. Alessandro. E’ un prezioso seggio a quattro stalli, dagli schienali a riquadrature, scompartito da lesene decorate a fogliami e putti ad alto rilievo non particolarmente sciolti, mentre le mensole dei braccioli recano singolari doppie teste mostruose: raffinata e corretta è la sostanza della membratura, come per gli armadi precedenti. Non molto dissimile appare il coro della parrocchiale di Cortenova, che potrebbe risultare un’altra prova dei nostri Pigazzi. Ancora Barzio possiede diversi armadi di stilistica vicina; uno di essi, datato 1661 ma in seguito rimaneggiato, dovrebbe essere ascritto, sciogliendo le sigle, a Domenico Pigazzi, probabilmente lo stesso Giovanni Domenico ricordato a Pasturo nel 1647, figlio e collaboratore di Marco. Per il nostro paese il gruppo eseguiva nel 1664 anche il credenzone per lo stendardo del Rosario.

La quarta generazione di artigiani è rappresentata da Marco, figlio di Pietro e sposato con Caterina Merlo, il quale prosegue con maggiore abilità l’arte d’ebanisteria per la sua chiesa fino al 1679. Dopo la collaborazione col Lucino, se egli si adatta a comporre una predella per l’altare di S. Caterina a Barzio nel 1650, esplica però il suo talento a Pasturo nel pulpito del 1667 e nel confessionale dell’anno seguente. Di questa bella prova l’Orlandi trovava la data del 1698, scomparsa negli adattamenti del 1936, quando venne rifatto il fregio danneggiato, e sostituiti alcuni degli angeli da Antonio Monticelli di Cortabbio formandoli “più grassocci e paffutelli”: pare originario almeno l’ultimo l’angioletto di destra. Le note d’archivio per questa opera sembrano invece riferirsi al 1668 e chiamare in causa sia Marco che Domenico “Marangon”, che dovrebbe essere, come si è visto il figlio, sposatosi nel 1652 o 1653 con Daria Arrigoni.

Il confessionale è un grande e raro manufatto a due posti, suddiviso in quattro campate da sottili colonnine tortili e con i fianchi decorati di volute floreali, motivi che si rintracciano in altre opere di ebanisteria lecchese del settimo decennio del Seicento; poggiano sulla complessa cimasa cinque piedistalli per i putti e per la centrale figura di un santo vescovo, da individuare in S. Eusebio, una statua a tutto tondo snella ed equilibrata; Marco e gli altri Pigazzi sembrano eccellere non tanto nella figura, quanto nella distribuzione funzionale e nelle perfette specchiature, oltre che nella gradevole inventiva degli intagli naturalistici.

Il grande mobile è stato recentemente spostato dalla navata al fondo dello pseudo-transetto di sinistra, subendo qualche modifica: sostituzione di parti del prospetto, eliminazione di decori laterali, ridistribuzione dei putti ancorati in modo da sembrare volanti.

Marco fu forse anche autore dello scomparso ciborio della nuova vasca battesimale, quella precedente all’attuale del 1774, che era stata scolpita nel 1667 da mastro Giulio (Tencalla?) di Gittana, altro marmorino di spicco, del quale restano a Mandello molte prove, come quella ben apprezzabile delle balaustre maggiori; il capocielo in noce fu dato invece a Giovanni Paganoni, probabilmente di Cremeno.

Un'ultima generazione di falegnami compare nel Settecento. Per la chiesa di Maggio nel 1722 mastro Giovanni Maria esegue a intaglio la cornice della pala dell’altare e nel 1739 un vestaro.

Questo Giovanni è indicato come cognato di Bonaventura Pigazzi fu Pietro, mastro di legname di Pasturo; insieme sono autori del restaurato coro dell’oratorio dei Confratelli di Vendrogno nel 1738, per lire imperiali 290. I seggi sono eleganti nella loro semplicità di riquadrature e volute, non diversamente dalla balconata della cantoria che nel 1734 il Bonaventura aveva composto per il nuovo organo di Pasturo costruito dal bergamasco Antonio Bossi. Nel 1849 venne sostituito da Livio Tornaghi di Monza, ma la cassa fu mantenuta; essa sembra però in parte ricomposta e rifatta, forse nei lavori del 1939, rivelandosi relativamente equilibrata rispetto all’insieme. Nel 1753 Bonaventura creò infine un confessionale delle donne nella vecchia parrocchiale di Rancio di Lecco.

In tutte queste opere rimaste, l’enfasi barocca, rintracciabile ad esempio nella sacristia di Cremeno, fabbricata e scolpita da Federico Andreotti di Galbiate nel 1690, rimane sostanzialmente sconosciuta, a fronte dell’equilibrio funzionale.

Non sappiamo se veramente i Pigazzi creassero una scuola. Resta significativo che Pasturo abbia dato ancora altri artisti del genere, un Gerolamo Costadoni attivo nel 1790 a Maggio e Calimero Cimpanelli scultore sia del confessionale del 1781 ancora esistente in chiesa, sia del Crocifisso dell’arco trionfale di Pasturo nel 1821; e vi sarebbe da mettere in conto anche l’insieme del coro della stessa chiesa, attuato, sempre con simili modalità, nel 1775. Sembra un ponte che giunge alla contemporaneità delle sculture di Lionello Caddeo.

 

                                                           Angelo Borghi

 

 

IL GRINZONE n.12