TRA PARINI E MANZONI, STEFANO TICOZZI LETTERATO


Pasturo è una terricciola, verrebbe da dire, che non ha poi molte glorie del passato da annoverare nel suo blasone. Ma sarà davvero così, o si tratta più poveramente del difetto della nostra distratta memoria che oggi riduce il passato a un buio indistinto. Le pagine di questa piccola rivista, per esempio, contribuiscono a tener ben vivo il brillante ricordo di Antonia Pozzi, pasturese di adozione e di diritto, ma altri pasturesi, magari dispersi dal vento brusco e capriccioso della storia, hanno pure portato lustro al nostro piccolo borgo alpestre, anche se oggi non sempre sono presenti alla nostra memoria.

Uno di questi, forse quello cui maggiormente spetterebbe un risarcimento di notorietà, è Stefano Ticozzi, figura come poche altre estremamente rappresentativa del tempo straordinario in cui ebbe a vivere. In queste pagine e in alcune altre che ci ripromettiamo di far seguire, se i nostri lettori le riterranno degne di interesse, vorremmo ripercorrere, senza pretesa accademica, la poliedrica attività e la intensa personalità culturale di questo avventuroso personaggio, seguendo un poco la nostra curiosità e la compartimentazione degli interessi che lo animarono.

Nato nel 1762 dalla famiglia prestigiosa di quei Ticozzi che si erano in quel secolo trasferiti a Castello di Lecco, Stefano venne avviato alla formazione ecclesiastica avendo la fortuna di formarsi prima a Milano e poi, per gli studi di teologia, all’Università di Pavia. Circa la sua particolare carriera religiosa, che come tante altre venne travolta dalle tumultuose novità che dalla Parigi illuminista e rivoluzionaria si diffondevano in tutta Europa, abbiamo ora una adeguata e precisa informazione grazie al recente lungo studio apparso in un volume del periodico culturale “Archivi di Lecco”, rivista nata dalla fecondissima intuizione e dal generoso impegno scientifico del compianto Aroldo Benini che vogliamo ricordare anche perché in precedenti numeri di quella stessa pubblicazione aveva più volte riproposto all’attenzione dei lettori il nostro autore pasturese.

Prima degli studi teologici svolti sotto la guida di illustri professori, per la formazione umana e culturale del Ticozzi fu assolutamente decisivo l’incontro con Giuseppe Parini. Il poeta e letterato di Bosisio, anch’egli sacerdote (e per soprammercato di tiepida vocazione, avviato al seminario a causa di una complessione debole e di una zia animata da zelo religioso che gli pagò gli studi) insegnava ormai da tempo presso le scuole Palatine di Milano, all’interno del palazzo di Brera, dove pure risiedeva.

Gli studiosi hanno chiarito come il significato della presenza culturale del Parini in quella Milano del secondo Settecento non possa essere ristretto alla pubblicazione del Giorno (con le sue due prime parti e con quello che seguirà) e delle Odi: il sacerdote e docente ebbe soprattutto un dono e un merito straordinari nella formazione di una intera classe intellettuale ambrosiana, una classe che viene ancora oggi ricordata per essere stata quella da cui ha preso l’avvio la costruzione della moderna Capitale morale. Oltre quindi al Parini poeta, al Parini delle accademie settecentesche, non va trascurato il Parini insegnante che per le vicende omologhe di tutti i suoi allievi seppe educare generazioni di lombardi nel culto della libertà, della concordia, del rigore civico. Non sappiamo tutto quello che vorremmo conoscere delle sue intense lezioni, anche se almeno i suoi Principi generali e particolari delle belle lettere applicati alle belle arti sono già assai significativi di quanto veniamo dicendo. Ma più ancora ci dice pure un semplice accenno ai nomi che uscirono dalla sua scuola, da Agostino Gambarelli editore delle poesie del Maestro e morto suicida patriotticamente, a Giovanni Torti, avviato anch’egli alla carriera religiosa e poi uscitone, per diventare raro ma forte poeta caro al Manzoni, a Gaetano Giudici benemerito a Brera e alla cultura milanese, all’avvocato Francesco Reina, patriota, bibliofilo ed editore principe di tutta l’opera pariniana, e altri nomi ancora si potrebbero aggiungere. Tra questi allievi sedette anche Stefano Ticozzi e non fu un’esperienza senza significato. Ancora nel 1817 il Ticozzi, introducendo la sua bella opera sulla famiglia cadorina di pittori Vecellio (Milano, F. Stella editore 1817), così si esprimeva nostalgicamente, nel dedicare il volume rivolta all’amico Francesco Reina:

trovando in questa mia scrittura qua e là sparsi quegl’immutabili principii del bello universale comuni alle lettere ed alle arti, vi sia dolce ricordare i beati tempi, quando, pendenti dalla bocca del nostro immortale precettore, il sommo Parini, formavamo tesoro nella mente di quelle recondite sublimi dottrine chi sì ubertosi e precoci frutti in voi produssero”.

Erano trascorsi almeno trent’anni da quel ‘pendere dalle labbra’ di un tanto Maestro, tre decenni tra i più intensi della storia politica e culturale europea, tra illuminismo, rivoluzione, neoclassicismo, consolato e impero, Restaurazione e albori di una nuova sensibilità romantica: eppure la lezione austera ma umana del semplice abate brianzolo parlava ancora a quelle generazioni di aspiranti italiani, che pure non avrebbero avuto la fortuna di vedere i frutti ubertosi e durevoli che la Milano dei lumi stava per consegnare al Risorgimento italiano. Ticozzi alla lezione pariniana restò tenacemente fedele e certamente essa ebbe un grande ruolo nella sua particolare scelta di dedicarsi anche alla storia dell’arte, il campo cui deve ancora oggi la sua maggiore notorietà (basti l’accenno alla sua presenza in tale senso nell’internettiano calderone incondito di Wikipedia), dove ebbe meriti di precocità, di originalità e di risultato, come vedremo in una successiva occasione. Ma l’esempio del Parini che esercitò tale influenza non poté appunto assecondare l’incalzare delle novità che la cultura veniva producendo. La prospettiva lombarda, arcadica e classicheggiante, razionalistica di quel modello, risultò rapidamente inadeguata alle urgenze delle nuove epoche ottocentesche: lo stesso Manzoni, di una generazione più giovane, pur con tanta ammirazione per l’autore del Giorno non poteva non rilevarne il sostanziale fallimento e la inadeguatezza a modificare i costumi della nobiltà, come pure era suo fine raggiungere. Accadde forse al Ticozzi quello che ad altri più grandi di lui vediamo succedere: di fronte a tempi tumultuanti e in continuo mutamento, alcuni si tennero fedeli alla lezione settecentesca che pareva più autorevole, quella razionalistica e materialista, come possiamo dire, semplificando, successe per Pietro Giordani o per Giacomo Leopardi.

Linea differente era quella del Manzoni, che infatti si stava formando in una prospettiva lombarda sì, ma anche assolutamente francese ed europea, in accordo con le riflessioni più moderne che gli scrittori in tutto il vecchio continente venivano elaborando. E tuttavia un singolare primo incrocio tra le due personalità, Ticozzi e Manzoni, possiamo trovarlo in qualcosa di molto particolare. Per la elaborazione delle sue tragedie nel secondo decennio dell’Ottocento uno dei testi più importanti cui Manzoni guardò, non senza prese di distanza ma riconoscendone il valore e la importanza, fu la ponderosa opera storica dello svizzero Sismondi Storia delle repubbliche italiane del medio evo, che egli lesse e meditò nella originale edizione francese. Il testo aveva un tale interesse, alle soglie del ripensamento risorgimentale della nostra storia, che venne presto tradotto in italiano, pubblicato dalla Tipografia Elvetica di Capolago, nel 1817-18, proprio ad opera del nostro Stefano Ticozzi. Una edizione che ebbe subito il giusto riconoscimento fin dalle colonne prestigiose del “Conciliatore”, dove se ne occupò Pietro Borsieri.

Da queste premesse non è facile dedurre una fisionomia di scrittore per il Ticozzi: non mi sono noti suoi esperimenti poetici (di cui pure qualche traccia pare esistere), e non mi sono note le vicende delle sue numerose carte autografe e corrispondenze. Note sono invece due opere in prosa, anche se di anni ormai tardi, le Memorie di Bianca Capello Granduchessa di Toscana, raccolte e illustrate da Stefano Ticozzi, Firenze, Batelli 1827, e Matteo Visconti in esilio. Memorie storiche di Stefano Ticozzi, Milano, Truffi 1830.

Anche solo a un esame esterno colpiscono alcune cose. Intanto il ricorso in entrambe le opere alla parola memorie, che vedremo come definire; inoltre ogni lettore colto sa che il 1827, anno ufficiale della prima edizione dei Promessi Sposi, segna l’avvio della grande fortuna storica del romanzo storico in Italia. Ma il nostro autore non cessa di sfuggirci, di sorprenderci. Il testo della prima opera è dedicato alla infelice storia della nobildonna veneta con il granduca di Firenze Francesco I. Una vicenda che dagli ultimi anni del Rinascimento non cessò di far parlare e discutere, con una evidente faziosità da parte degli storiografi fiorentini verso la donna veneziana. Si presenta come una riproduzione moderna delle carte originali di Bianca fortunosamente ritrovate a Firenze. I misteri di tale testo non sono pochi: a partire dalla sua rarità bibliografica che indurrebbe a pensare a una fortuna editoriale molto ridotta (fu pubblicato dall’editore Vincenzo Batelli in quello stesso 1827), come anche ci indica il suo essere stato pressoché ignorato dalla bibliografia storica sui suoi personaggi storici principali, da Cosimo I al figlio Francesco. Ticozzi stesso non ci facilita il compito: il racconto infatti viene presentato come la trascrizione di autentiche antiche carte, di cui oggi non v’è più traccia, che egli o l’editore hanno prodigiosamente ritrovato durante lavori di restauro proprio nella antica casa dello stesso Batelli. Una ricostruzione che suscita diffidenza, ma che non deve affatto indurci a nessun sospetto di ciarlataneria, essendo il metodo storico e ricostruttivo del Ticozzi ampiamente attestato e verificato nelle sue numerose opere precedenti di erudizione esercitata in vari campi. Allora forse non è improprio avanzare il dubbio di una sorta di implicita e divertita riserva espressa verso chi in quei momenti si era inventato un manoscritto di Anonimo dove ricavare le vicende curiose di un Renzo e una Lucia. L’uomo, non lo abbiamo fin qui detto, come ci testimonia direttamente anche lo storico valsassinese Giuseppe Arrigoni, era persona discreta ma arguta, dotata di un proprio spirito autonomo e non privo di spregiudicatezza (anche senza voler ricordare la sua rapida dismissione dell’abito talare). Dunque presentare un capitolo affascinante della Firenze rinascimentale sotto forma di una testimonianza direttamente giunta da quel passato aveva un suo carattere di novità nel panorama letterario contemporaneo. In realtà le cose andarono diversamente, il gusto storico manzoniano, come sappiamo, ebbe enorme fortuna, e poco spazio restò per le invenzioni estemporanee di uno Stefano Ticozzi, valsassinese trapiantato dopo Parigi, il Cadore, la Garfagnana, la Lunigiana, nella Toscana dove svolgeva un duro e sottopagato lavoro editoriale. Se l’esperimento della Bianca Capello non ebbe fortuna (fino ai giorni nostri: infatti l’unica edizione moderna di questo testo è quella edita nel 1966 a cura di Ferdinando Tempesti, per l’editore milanese Lerici), ciò non bastò a trattenere il Ticozzi da un secondo più breve analogo tentativo, quello dedicato a Matteo Visconti edito tre anni dopo a Milano. Siamo anche in questo caso di fronte a un testo che viene narrato in prima persona, come se si trattasse della relazione che lo stesso Matteo Visconti fa all’imperatore Arrigo VII, quello di fama dantesca, circa gli avvenimenti milanesi che lo hanno condotto alla sua fuoriuscita dalla città, nell’ambito delle cruente lotte di fazione milanesi e contro la famiglia Della Torre (peraltro di origine valsassinese, come è noto). Aggiungeremo che nel volume strenna dell’editore Truffi, dopo il breve racconto di Stefano, fa seguito il più corposo testo Il solitario del Bosforo. Novella Storica di Albina Ticozzi, sua figlia. Ma nei suoi due testi ora sommariamente ricordati sembra infine che il Ticozzi cerchi una propria via non al romanzo ma al racconto storico, una via fatta di grandi personaggi, di attenzione a epoche storiche tardo medievali e rinascimentali, sostenuta da una erudizione accurata e da una attendibilità totale, che esclude il lavoro ricostruttivo fantastico che solo poteva animare la non-storia ufficiale di Renzo e Lucia.

Se esaminata nel suo complesso la parte letteraria della attività del Ticozzi appare certo minore rispetto al suo impegno di traduttore, di compilatore, di storico dell’arte. La vita forse lo indusse a mettere a frutto i talenti che, dalla giovinezza guidata dal Parini alla difficile maturità, egli aveva avuto in modo più concreto e immediato. Sappiamo quali fossero le condizioni del lavoro intellettuale in quei decenni del secolo XIX, anche per un grande come il Leopardi. Ce ne parla con bella puntualità di ricostruzione il libro di M. Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, dove infatti il nostro Ticozzi è ben presente. Ma della sua opera editoriale e di divulgatore culturale, se ancora vi sarà interesse, parleremo una prossima volta.

                                                                                                          Renato Marchi


IL GRINZONE n.27 e n.28