UNA PASSIONE LUNGA SETTANT'ANNI

Giuseppe Faccinetto a Pasturo

 

Tra mio padre, Giuseppe Faccinetto, e Pasturo c’era un legame profondo. Non un legame dettato da motivi sentimentali o da ricordi o da suggestioni letterarie. Nemmeno da ragioni pratiche. Era un legame d’elezione, frutto di una libera scelta della volontà. E come tale indistruttibile.

Di famiglia veneta residente in Svizzera fino allo scoppio del primo conflitto mondiale, mio padre era arrivato a Lecco in piena guerra, all’inizio del ’43. C’era arrivato senza più un braccio, perso in battaglia l’anno prima nel deserto della Cirenaica, e con una medaglia d’argento al valor militare appuntata al petto. Ma soprattutto c’era arrivato con il desiderio di voltare pagina e ricominciare. Aveva 25 anni e ancora tutta la vita davanti.

La sua conoscenza della meccanica e dei motori – che a militare gli aveva consentito di diventare istruttore motorista quando il suo reggimento, il Nizza Cavalleria, era stato dotato dei primi mezzi corazzati – lo aveva portato alla Sae, allora agli albori. È stato lì che è cominciato tutto.

Erano tempi difficili. Gli anglo-americani stavano aumentando la pressione sull’Italia con l’obiettivo di affrettarne la capitolazione. I bombardamenti su Milano e sulle altre aree industriali della Lombardia si susseguivano sempre più frequenti. Anche Lecco era un obiettivo. Mio padre, scapolo, viveva presso la foresteria del Garabuso, ad Acquate, nei pressi dello stabilimento. È stato per passare la notte lontano dagli allarmi aerei che è finito a Pasturo. Quassù, per lo stesso motivo, era sfollata la famiglia di Massimo Annovi, il giovane direttore della fabbrica divenuto nel frattempo suo amico. E Massimo lo aveva consigliato. Mio padre ospite dalla Bambina, in quello che oggi è l’albergo “Grigna”, l’amico in una casetta vicina. Ed era cominciato un periodo di avventuroso pendolarismo.

“La sera dopo il lavoro – raccontava – prendevamo l’Ercole dell’officina (Ercole era il nome del motocarro pesante della Guzzi, nda) e in tre o quattro salivamo verso Pasturo, pronti, il mattino dopo, a fare il percorso inverso”. Qualche volta, quando l’Ercole era impiegato in altri servizi, il motocarro veniva sostituito dalla bicicletta e alla giornata di lavoro si aggiungeva una bella sudata. Ma erano giovani e a Pasturo non ci si rinunciava. E non ci avrebbero rinunciato nemmeno nei mesi della guerra di liberazione, quando al rischio dei bombardamenti si sovrapponeva quello dei posti di blocco, fascisti e partigiani, e il permesso di circolazione rilasciato a suo tempo dal comando tedesco (per motivi di lavoro) non bastava più.

Era il 1943, dicevo. E ai primissimi mesi del 1943 risale la scoperta di mio padre di quel mondo che sta “sopra” Pasturo: Cornisella, il Pialeral, la Grigna, coi loro pendii in quel periodo perfetti campi da sci. Un vero paradiso per chi come lui aveva imparato a sciare, non ancora ragazzo, sui monti di Belluno. E’ stato un colpo di fulmine e il paese è diventato la sua patria d’elezione. Una patria sulla quale aveva deciso di lasciare un piccolo segno.

Finita la guerra, con qualche motore abbandonato dai tedeschi o dagli angloamericani (ne hanno avuti per le mani di entrambe le provenienze) lui e il suo amico Massimo hanno cominciato a mettere insieme le prime sciovie. All’inizio rudimentali: un motore, uno spezzone di corda alla quale aggrapparsi e una ruota di rinvio appesa a un albero o a un palo infisso nella roccia. La prima - raccontava - assemblata con altri appassionati appena sotto il Brioschi, sul versante nord della Grigna, durata lo spazio di una primavera. Poi sempre più sofisticati.

Del ’51 è il primo vero skilift - “slittovia” è scritto sul progetto - tra Arei e Piazza Cavalli al Pialeral. Skilift smontabile, per non dare noia alle mucche che d’estate su quei prati erano solite pascolare. Così a ottobre ci si metteva di buona lena per impiantare i pali che in aprile, con un bis di fatica, si dovevano smontare. Fortuna che la corda di fili d’acciaio era di quelle “leggere”, che correvano a un metro da terra e si tiravano senza eccessive sofferenze.

Qualche anno dopo, conquistata la fiducia dei bergamini e acquistati i primi pezzi di terra, i tre soci – a Massimo Annovi e a mio padre si era aggiunto, credo per puro spirito di amicizia, Tobia Fumagalli, piccolo industriale di Laorca – erano passati a sciovie più stabili, cioè permanenti. Una tra Arei e Piazza Cavalli, poi un’altra tra Catei e il Pialeral e, ancora, una terza dalla Foppa al Cimotto. A metà degli anni Sessanta, quando tutte e tre – seppur “private” – erano in funzione, si poteva salire dai 1200m di Catei fino ai 1900 del Cimotto. Una discesa senza uguali in tutta la Valsassina. Poi, nel 1970, sempre tra Arei e Piazza Cavalli fu la volta del primo skilift “vero”, con tanto di società proprietaria, una snc iscritta al registro delle imprese, di collaudo, autorizzazione regionale, orari e tariffe.

Skilift costati soldi, ma soprattutto lavoro e fatica. Perché allora, per portare pali, corde, motori, benzina, gasolio e materiali vari non c’era la strada che c’è oggi. Tutto veniva trasportato a spalla e a dorso di mulo (la prima jeep era arrivata nel ’64) su per la vecchia mulattiera; solo nel ’70, per i trasporti più pesanti, era stata montata una teleferica di servizio. E tutto per passione. Perché, forse, c’era anche la recondita speranza che quegli skilift potessero rivelarsi un affare, in tempi come quelli di grande espansione dello sci di discesa (in fondo bastava che qualcuno si prendesse la briga di impiantare una seggiovia tra Pasturo e Cornisella o poco più su e il gioco era fatto). Ma il vero obiettivo di tanti sacrifici era quello di avere degli impianti che consentissero a loro, ai loro amici, agli sciatori di Pasturo e a tutti quelli che ci capitavano, di godere la bellezza di quei pendii lontani dalle code di Bobbio, di Erna o di Artavaggio. Una giusta ricompensa per la scarpinata che – sci in spalla – si doveva fare per raggiungerli.  

Non è stata un’avventura da poco. È durata più di tre decenni (fino alla slavina dell’86) e ha cementato il legame di mio padre con questa terra e con i suoi uomini.  

Perché questo è l’altro aspetto, più importante del primo. Se gli skilift sono stati, e in parte sono ancora, nonostante gli anni e le valanghe, testimoni della forza di un progetto perseguito con determinazione e passione, sono i legami instaurati con la gente di qui ad essere destinati a vivere a lungo nei ricordi. I vari Ticozzi, Aliprandi, Bergamini, Perondi, Orlandi, De Dionigi, De Martini, Mazzoleni, Agostoni, Doniselli, per non parlare dei Gandin o dei Pensa, gestori del rifugio Tedeschi (e mi si perdoni qualche dimenticanza), sono stati per decenni protagonisti di una cerchia di rapporti consolidati. Tra loro molti, negli anni Cinquanta e Sessanta, erano stati assunti alla Sae. Altri avevano contribuito con le loro competenze alla realizzazione degli skilift (e al consolidamento dei manufatti della vecchia mulattiera). Altri ancora erano stati fornitori di materiali o dispensatori di utili consigli. Alcuni - Ambrogio Aliprandi, Michele Ticozzi e Angelo Ticozzi - dipendenti Sae e competenti collaboratori nella realizzazione delle sciovie, erano stati poi, insieme al motorista Giuseppe Gambarelli, anche parte dello staff ufficiale della sciovia Arei – Piazza Cavalli negli anni in cui restò aperta al pubblico.

Tra mio padre e molte di queste persone si instaurò un’amicizia durata tutta la vita.

Le occasioni per alimentarla del resto non mancavano. Perché non c’erano solo gli skilift e non c’era solo la Sae a favorire i rapporti fra mio padre e la gente di Pasturo. Nel 1960 aveva comperato uno dei vecchi mulini sul Grinzone e con noi figli lo aveva ristrutturato. Non perché volesse viverci e nemmeno per trascorrere i momenti liberi – per quelli avrebbe sempre preferito il Pialeral – ma come segno della stabilità del suo rapporto con il paese.

Sempre in quegli anni aveva acquistato, accanto al “suo” skilift, una piccola baita agli Arei. Lassù, per tutto il resto della vita, ci sarebbe andato quasi ogni domenica del calendario. Poi, una volta in pensione, anche tre, quattro volte alla settimana. A piedi o col guzzino (come facesse con una mano sola non l’ho mai capito, ma ce la faceva) o con la sua Alfa “Matta” o con la fedelissima Panda.

Quasi mai quei brevi viaggi erano diretti. Certi giorni le tappe erano infinite. Qui c’era un bergamino sul pascolo da salutare, là ce n’era un altro da andare a cercare per avere notizie di un certo affare, più avanti ce n’era un altro ancora che aveva chiesto l’interessamento per qualche faccenda di lavoro. Poi c’erano i conoscenti incontrati per via e i pastori e i “capanatt” del Pialeral o della Grigna. E gli amici intravisti sulla soglia della loro baita, per salutare i quali valeva ben la pena fare una deviazione.

Perché era uno di poche parole, mio padre. Ma a Pasturo (e lungo la salita per il Pialeral) se ne dimenticava.  

 

                                                                                           Angelo


IL GRINZONE n. 57