EREMO DELLA BRECCIA

 

La ‘Breccia’ è un punto di incontro: nella Bibbia leggiamo che Mosè stava sulla breccia per fermare la collera di Dio verso il popolo. Mosè come intercessore riesce addirittura far cambiare idea a Dio: anche se il popolo ha peccato può ancora tornare a Lui. Leggiamo nel salmo: ‘E aveva già deciso di sterminarli, se Mosè suo eletto non fosse stato sulla breccia di fronte a lui, per stornare la sua collera dallo sterminio’”.



Don Raffaele ci spiega così, semplicemente ma profondamente, il senso di quel nome che ha voluto dare al suo eremo, Eremo della Breccia. Anche chi è fuori può trovare un accesso: chi non si sente “dentro” ma avverte un’ispirazione, chi è messo ai margini, chi sta in periferia, come ricorda spesso anche papa Francesco.

La breccia come punto di incontro: “Qui vengono diverse persone, anche non credenti, anche di altre religioni; qui anche le differenze sono accolte e ci può essere quella libertà che in una Parrocchia, con un senso di appartenenza più marcato, fa più fatica ad esprimersi”.

In effetti all’Eremo della Breccia, a Gallino, un alpeggio sopra Pagnona sulla strada verso il Legnone, non ci sono cancelli, non ci sono recinzioni. La libertà la respiri e ancor di più la sperimenti quando incontri don Raffaele, che qui vive da eremita da quasi dieci anni. Nulla dei soliti stereotipi, vive in una delle baite che pian piano, con l’aiuto di diverse persone - soprattutto i giovani degli Oratori dove ha svolto precedentemente la sua attività pastorale - ha ristrutturato nella semplicità e nel rispetto della tradizione locale. “In effetti è capitato che si presentasse una persona matura a chiedermi se poteva vedere l’eremita; era una giornata invernale e a Gallino non c’era anima viva se non io che stavo lavorando in falegnameria. Gli ho risposto: ‘Visto che sono solo, si dice che sia io l’eremita’. Il signore, scocciato, se ne è andato bofonchiando che non potevo essere io, non avevo la barba e non vivevo in una grotta…”.

 

Ma come è arrivato don Raffaele a Gallino?

Posso rispondere che è stata la Provvidenza. Una signora mi aveva regalato in questo angolo sperduto un baitello, di fatto una stalla, diventata deposito, con sopra un piccolo fienile, l’attuale casa dove ci troviamo adesso a parlare. Devo ammettere che la prima volta che ho visto questo posto sono rimasto colpito dal suo stato di abbandono. Ho scattato anche una foto per testimoniarlo… Poi mi sono accorto che qui non viveva nessuno ma non era del tutto isolato e soprattutto era un luogo di passaggio, una breccia appunto… Non c’era nulla; pian piano abbiamo portato l’elettricità, l’acqua, la fognatura. Alcune baite vicine sono diventate la Cappella, la biblioteca, il laboratorio di falegnameria, la casa per gli ospiti. In biblioteca ci sono quasi 10.000 libri: alcuni portati da me e altri donati dal fratello di don Ezio Brambilla alla sua morte nel 2019. Don Ezio è stato uno dei primi preti diocesani che col Card. Martini aveva iniziato l’esperienza dell’eremo a Canzo e i libri sono prevalentemente testi dei Padri della Chiesa, dei Monaci d’Oriente, oltre ai contributi di vari teologi in preparazione del Concilio Vaticano II”.

 

Siamo curiosi di conoscere un po’ la storia di questo prete così pieno di vita, di cultura, di saggezza e di essenzialità.


Come è diventato prete e quali sono state le motivazioni che lo hanno portato a scegliere la vita eremitica?

Don Raffaele, come tutti i ragazzi di quel periodo, da adolescente frequenta l’oratorio. Si accosta alla Parola di Dio (“Che non conoscevo per nulla”) e segue l’Assemblea di Sichem, voluta dal Card. Martini proprio per i giovani. Ne ha un ricordo molto vivo, in particolare ricorda un campeggio nell’estate del 1989: “Durante il momento dell’adorazione invece di dire le preghiere mi sono messo in silenzio e in ascolto, ‘Dì Tu Signore’. La ricordo come un’esperienza quasi scioccante, non pregavo, ma avvertivo la Parola che si rivolgeva a me, mi sentivo in dialogo con Dio. Si è così fatta strada anche l’idea di farmi prete”.

Si confida col prete dell’oratorio ed inizia un percorso di discernimento (una parola importante per don Raffaele). Finisce le Superiori al Liceo Artistico e dopo la Maturità entra in Seminario. Viene ordinato prete nel 1999 da Martini e assegnato come coadiutore a Cologno Monzese dove rimane 10 anni; poi viene inviato a Treviglio per seguire la Pastorale Giovanile del Decanato. E’ molto impegnato in diverse attività: dalla catechesi al doposcuola, segue una Fondazione che si occupa di minori, un Centro diurno e Comunità di recupero per ragazze...

E’ ancora a Cologno quando inizia a pensare alla vita eremitica. Ne parla con Martini e sono davvero molto interessanti e profonde le riflessioni portate avanti con lui; la prima domanda che il Cardinale gli rivolge: è una fuga quella che vuole intraprendere? La risposta è no: continua ad essere molto impegnato; ha buoni rapporti con la comunità, con i giovani, con i superiori e con i confratelli. Anche qui è fondamentale il percorso di discernimento. Si confronta anche con Tettamanzi, nuovo Vescovo di Milano, che gli comunica che anche altri preti della Diocesi stanno facendo un percorso analogo al suo: con loro Tettamanzi fa due incontri all’anno per maturare assieme una risposta alla loro ispirazione. La preparazione dura diversi anni… “Cercavo di conciliare una vita contemplativa con la vita attiva, molto attiva. Mi alzavo presto il mattino per pregare e questo mi aiutava: Ora et Labora sono sempre stati legati, non c’è scissione.



I Padri del deserto dicevano che non bisogna anteporre nulla al servizio di Dio. Anche l’ospitalità è un valore fondamentale per l’esperienza eremitica. Mi hanno aiutato molto le letture e l’esperienza dei Padri del deserto e mi aiutano ancora molto. Come pure sono importanti gli incontri - a cadenza mensile - con altri quattro eremiti che vivono in altre zone; in ogni incontro ci confrontiamo su un tema particolare, il prossimo riguarda la liturgia”.

Quindi la scelta di lasciare Treviglio e iniziare la vita eremitica: “Ci sono state reazioni anche di sorpresa, ma in generale di condivisione. Qualcuno l’ha vista come una fuga dall’impegno e devo dire che mi ha dato sofferenza ma l’ho superata in accordo col Vescovo. Ho scoperto l’importanza della figura di Giovanni Battista, uomo di grandi privazioni: prepara la via al Signore, invita i suoi discepoli a seguire Gesù ma lui non farà parte degli apostoli, è portato in carcere dove muore…”.

 

Com’è una giornata qui all’Eremo?

Sveglia alle 4.30 (alle 5 d’inverno) e preghiera fino alle 7 quando si celebra la Messa. Dopo la colazione c’è il lavoro fino all’ora di pranzo (assieme con gli ospiti quando ci sono) e poi ancora il lavoro fino alle 17. Dopo c’è il silenzio e la preghiera. Anche gli ospiti sono invitati a questa regola”.

Don Raffaele, per sottolineare l’importanza della preghiera di intercessione, racconta la storia di un eremita che viveva ad Alessandria d’Egitto: “Quando sentiva dei giovani bestemmiare pregava soprattutto per loro: ‘Loro andranno in Paradiso, io no. Non ci si salva da soli. Lo sguardo dell’eremita è lo sguardo dal monte alla città, luogo della convivenza umana dove trovano spazio le diversità. A Gerico confluirono tribù diverse per vivere insieme. Non ha senso una città senza diversità... mentre noi assistiamo al tentativo di espellere le differenze, di chiudere le porte al diverso. Per questo la Breccia…”.

 

Cosa cercano i tuoi ‘ospiti’?

Cercano l’essenzialità, fatta anche di silenzio e di confronto. Nella vita normale c’è una sovrabbondanza di informazioni e se ne è quasi travolti, qui ci sono solo quelle che vale la pena approfondire; c’è una sovrabbondanza di spazi, qui no; c’è una sovrabbondanza di relazioni, qui no; c’è una sovrabbondanza dell’individuo, qui no. Per questo a volte capita che una persona chiede di fermarsi una settimana ma dopo due giorni riceve una telefonata, si ricorda di un impegno, si scusa ma deve ripartire… Qualcuno pensa che la solitudine offra automaticamente più libertà ma non è un fatto immediato. Maggior solitudine richiede maggior disciplina e maggior rigore”.

 

Come sono stati vissuti all’eremo della Breccia i periodi di lockdown?

Qui non è cambiato nulla…” sorride don Raffaele.

                                                                                                                        Guido


IL GRINZONE n.75