Fuochi di S.Antonio

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    Sorprende, e suona quasi come un allarme, l’attacco di questa poesia – «Fiamme» – così staccato dal verbo che lo regge – «ardere» – e altrettanto lontano dal soggetto della frase reggente, [Io] «sento»: la costruzione sintattica, ponendo al primo posto l’oggetto della percezione sensoriale – le fiamme – dà origine a questa sorpresa.
   La poesia è datata 17 gennaio, festa di sant’Antonio abate, per cui le fiamme, così inaspettatamente accese al suo esordio, dovrebbero essere quelle dei falò in onore del santo, del quale Antonia porta il nome e al quale, fra l’altro, a Milano è dedicata una chiesa risalente al sec. XIII, molto importante per il suo valore artistico e sita fra il Duomo e l’Università statale, quindi, abbastanza vicina a via Mascheroni, dove Antonia abitava. Entrando, però, nel testo della poesia, subito dopo il primo verso, vi troviamo un paesaggio marino: Antonia scrive, infatti, che le fiamme ardono «in riva a un mare oscuro» e parla di roghi che bruciano, «lungo i porti», «vecchie cose, alghe, barche naufragate». Scopriamo così che il «sentire» di Antonia non si riferisce soltanto all’orecchio: esso si configura, invece e soprattutto, come una percezione interiore, che racchiude in un’unica emozione i suoni sensibilmente avvertiti e la riflessione improvvisamente maturata nel cuore, il luogo dove veramente ardono le fiamme – mentre lei scrive – e il ricordo di altri luoghi dove ha visto ardere altre fiamme in anni forse lontani: quelle dei fuochi di san Giorgio, tradizionali a Portofino. La Liguria, e in particolare Portofino, Santa Margherita Ligure, Camogli erano mete frequenti della famiglia Pozzi, soprattutto durante vacanze brevi, come quelle pasquali, e sono tra le località marine più frequenti negli scatti fotografici di Antonia; anzi in alcuni di essi, del 1938, sono ripresi adulti e bambini impegnati a preparare proprio i roghi di san Giorgio, a Portofino.
  La prima strofe inizia con un decasillabo che, accanto alle fiamme che scoppiettano nel silenzio della notte, e di cui nulla si sa in precedenza, mette in primo piano, in modo brusco, una forte percezione di sé, racchiusa in poche precise parole «nella sera del mio nome»: Antonia, quindi, stabilisce una relazione molto profonda tra le fiamme e la propria identità, il suo consistere, ora, come persona, con delle precise peculiarità; il nome, infatti, è l’espressione più immediata e più rappresentativa dell’identità personale. Il crepitio improvviso delle fiamme dei falò colpisce Antonia come una scossa, come l’angoscia di un risveglio dopo un sogno spaventoso, e la pone davanti a una sorta di filmato della propria vita, nel quale scorrono immagini di sogni svaniti che non possono tornare a fiorire, di speranze morte che non possono tornare a vivere, di ferite che non si rimarginano. Nella poesia Il porto, del 1933, la poetessa si identifica con una «nave sferzata / dai flutti/ dai venti –/ corrosa dal sole – macerata/ dagli uragani – … carica d’innumeri cose/ disfatte/ di frutti strani/ corrotti/ di sete vermiglie/ spaccate –», che alla fine, «per troppa stanchezza/… naufragherà… sfasciata». In questa poesia le scelte lessicali creano una sensazione di disfacimento e di morte, e la disposizione delle parole – così spezzate in un continuo a capo martellante – fa pensare a un pianto disperato che, volendo essere frenato, assume il ritmo di un parlare singhiozzato, strozzato. Da queste macerie Antonia vorrebbe liberarsi, da queste ferite che la vita le ha inferto, da questi ricordi che la opprimono; e ci vorrebbero «fiamme» capaci di incendiarli, di farli sparire come cenere al vento e di rimettere in moto le energie della giovinezza, azzerate dal gravame delle esperienze dolorose vissute; invece, Antonia è costretta a dirsi «in me nulla che possa/ esser arso».
   Entriamo, così, nella seconda strofe, speculare alla prima, sia per il contenuto che per la struttura metrica: entrambe le strofe sono composte di sette versi, dei quali due sono lunghi, mentre gli altri sono brevi, nella seconda anche brevissimi.   
   La seconda strofe si apre con un settenario, che lascia il fiato sospeso su un verbo che da solo non ha alcun senso: «possa»; ma, continuando la lettura, ci accorgiamo che la scelta stilistica operata dall’autrice, diventa una scelta di senso: lo stacco, grazie all’enjambement, del verbo principale «esser arso» conferisce una nuova e più marcata intensità al desiderio di poter bruciare, come fanno le fiamme con le cose vecchie ammonticchiate, i pezzi bui e opprimenti della propria vita; per questo il verso iniziale della strofe, che sarebbe stato un perfetto endecasillabo – disteso e pacato – senza l’a capo di «esser arso», è diventato un settenario pieno di ansia e di attesa; senza dire che i suoni di questo brevissimo verso non solo accrescono la sensazione del crepitare delle fiamme, ma dicono anche tutta l’amarezza del cuore di Antonia; mentre, a sua volta, il verbo tronco, con la erre finale che rotola rapidamente, quasi a dire la rapida vacuità del sogno-desiderio – «esser arso» – fa da controcanto al verso doppio e pesante (ternario più decasillabo): «ancora – con il suo peso indistruttibile», che esprime la negatività persistente del reale, rafforzata dai versi successivi: «presente» e «mi segue».
   Alla fine ci rendiamo conto dell’attento lavoro di stile che si nasconde in un testo che, a prima lettura, appare di estrema semplicità; e ci ritorna alla mente il giudizio espresso da Montale nella prefazione alle primissime edizioni Mondadori della poesia di Antonia: «[…] neppure in lei si attua poesia senza lavoro di penetrazione e di stile»; e ancora: «[…] si può leggere [il libro delle poesie di Antonia Pozzi] come il diario di un’anima e si può leggerlo come un libro di poesia. E se decidiamo per il secondo caso, vedremo Antonia cessare di essere facile e ovvia, ed acquistare il diritto ad essere giudicata […] alla stregua della poesia di sempre».

 

                                                                    Onorina Dino

 

IL GRINZONE n.48