Il sentiero

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  I primi cinque versi della poesia sono racchiusi tra il verbo di apertura «sperare» e le «speranze» che devono essere dimenticate. Il termine “sperare”, però, fa intuire una domanda triste e dolente: come sperare se il «domani» già «intatto sconfina» dall’anima e dalla vita reale? E di quanto peso negativo si carica l’aggettivo «intatto», che per sé, invece, dovrebbe avere un valore positivo: il futuro sperato e sospirato come totale cambiamento di vita, come uscita dalla solitudine esistenziale, si profila, invece, fissato, immobile, vuoto; era speranza e si è rivelato sogno, una nuvola di primavera che un soffio di vento ha portato via prima ancora che Antonia ne abbia preso coscienza. Nulla è cambiato e nulla cambierà. Il domani è ormai diventato un tempo remoto, morto, vita sognata; il «tempo vero» è il presente, tempo della disillusione, dell’assenza di ogni speranza, tempo che obbliga ai tagli netti, come suggerisce il verbo «dimenticare». In quel «dimenticare il volto / delle speranze», forse, al di là della metafora, c’è un volto concreto che Antonia dovrà dimenticare, o almeno cancellare dalle sue speranze: il volto di Remo Cantoni, con il quale aveva creduto di poter costruire una famiglia, vivere una vita nuova e vera, intera. I «viali» sognati per questa vita, dove poter respirare il profumo dell’amore, assaporare le gioie di sposa e di madre, sono sconfinati anch’essi, intatti, non vissuti, lasciando il posto a un «esile sentiero», l’unica via possibile ora per lei; e l’aggettivo «esile», scelto dall’autrice per definire il sentiero che le rimane da percorrere, non dice soltanto la privazione degli spazi di libertà e di sogno, la possibilità di allargare lo sguardo per cogliere nuovi orizzonti, altri cieli, altri lidi, altra vita, ma sembra anche tradire il tremare dei passi, il tremore del cuore, perché quel sentiero è per Antonia il «tuo sentiero», quello del suo presagito destino. Esso conduce a una sola meta: il «muro candido» e il «cancello socchiuso» del piccolo cimitero di Pasturo. Eppure questo luogo non ha nulla di tetro, nulla di triste: è un «breve orto disteso», immagine che suggerisce l’idea di una piccola famiglia serena e operosa, posto «lassù», in alto rispetto alla valle e al sentiero che discende, come a ricevere il sole dal suo sorgere al suo tramontare. Ed è un giardino che si anima ad ogni stagione, vestendo l’abito bianco dei cieli nevosi o respirando il tepore dei «venti primaverili»: ancora una volta, come in tante altre poesie di Antonia, la vita contende il primato alla morte. Inoltre, nel cuore della poesia, quando essa sembra precipitare nell’angoscia e nello smarrimento, ecco l’immagine della madre-montagna, Pasturo, sul cui «grembo d’erba» Antonia ha trascorso tanto tempo della sua infanzia e della sua vita: essa, come una madre premurosa, la chiamerà «coi cenni/ antichi delle campane» e i loro rintocchi si uniranno alle voci dei bambini che andranno a cantare per lei nel «breve orto disteso». Così la sua «solitudine» diventerà abbraccio e tenerezza per sempre, perché «bambini sconosciuti», non vorrebbe forse dire che non solo quelli che lei ha conosciuto, incontrandoli, per i prati o per le vie di Pasturo, ma anche quelli che non sono ancora nati, andranno a farle compagnia? E forse proprio per questo i bambini di cui scrive Antonia non hanno volto ma solo «bocche», per cantare. E che cosa c’è di più dolce di un canto di bambini per lei che amava tanto i bambini di Pasturo, che la guardavano coi loro «occhi tondi di passeri»?

 

                                                                             Onorina Dino


IL GRINZONE n.57