Le montagne

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  La poesia è del 1937 e reca la data 9 settembre, la stessa della pagina di diario nella quale Antonia fissa la «storia» dell’angelo che l’ha fatta salire di corsa nella sua stanza, dalla quale, attraverso la finestra aperta, aveva guardato «il profilo della montagna». Questa montagna è la Grigna che, in una poesia ad essa dedicata, Antonia definisce «sorgente» inesauribile della sua ispirazione poetica, «bontà inesausta», appunto, «a cui beve il suo canto / il cuore e di cantare non può più finire» perché essa è una «sorgente che rifà / il sorso bevuto / ed il suo fondo / non si tocca mai». Il 10 settembre Antonia scrive ancora nel diario «Ogni giorno le sento più tenaci dentro di me le mie mamme montagne». Ecco, le montagne di questa poesia, sono le montagne di Pasturo, del suo «nido», del paese che le offre «ginocchia materne», come scrive in Ritorno serale, su cui posare il capo e ritrovare la serenità.

  Montagne come donne, in questa poesia, e donne «immense». Eppure, questa loro immensità non genera paura, ma un senso di protezione, proprio perché colmano un vuoto, il cielo vuoto della sera, quando calato il velo del crepuscolo, le altre forme svaniscono a poco a poco e non resta che il profilo dei monti a segnare la distanza tra cielo e terra. La loro figura si precisa fin dall’inizio con l’immensità che suggerisce l’immobilità, il loro “stare” come sentinelle, marcato dalla costruzione sintattica del verso: il verbo-predicato «occupano», infatti, non solo precede il soggetto che, oltretutto, è sottinteso ed è da cercare nel titolo, ma dà l’incipit a tutta la poesia; un incipit che, grazie all’accento tonico posto sulla prima sillaba e alla cupa durezza della seconda, connota di forza e di potenza l’aggettivo «immense». Ma il terzo verso ci mette in guardia da questa impressione di dominio, trasfigurando le montagne in creature viventi e dolenti, degne di uno Stabat Mater: immobili, straziate ma non disperate, perché la speranza galleggia sul mare di dolore che potrebbe sommergerle. Ed è una «infinita speranza di un ritorno», che «le mani di pietra» strette sul petto sembrano voler custodire. E solo perché mosse da questa speranza esse, immobili, «fissan sbocchi di strade» nell’attesa dell’«assente»; e non hanno parole, perché dolore e speranza, tesi fino allo spasimo, non possono che essere muti. E intanto le montagne fanno crescere la vita, «figli», per lui, perché quando sarà ritornato possa riconoscersi in loro. Quando Antonia Pozzi scrive questa poesia, in Spagna infuria la guerra civile e molti soldati italiani si trovano là, mandati dallo stato fascista, a sostenere il regime franchista. Antonia non può non sapere di tanti giovani militari di Pasturo partiti per quel «laggiù» e forse tante donne le hanno confidato i loro timori e le loro speranze per i loro uomini così in pericolo e così lontani. Con una sintesi eccezionale, le due brevissime frasi racchiuse tra parentesi, Antonia riassume i fatti della storia – «lo chiamaron vele / laggiù – o battaglie» – , e il dolore delle donne, condensato in due soli colori «azzurra e rossa parve loro la terra». Solo così le donne montanare possono immaginare la condizione dei loro soldati: tra l’azzurro del mare e il rosso del sangue, inevitabilmente. Immagine astratta e concretissima al tempo stesso. Se poi si considera che le donne, probabilmente, non soltanto non sanno pronunciare il nome geografico, ma non sanno neppure dove la Spagna si trovi, si comprende allora quel «laggiù», che ne accresce l’indeterminatezza e la lontananza e, con esse, l’ansia e la paura di un non ritorno. Perciò le montagne, «immense donne» e «madri» vegliano senza tregua e «trasalgon» ad ogni piccolo rumore di passi; e scrutano l’orizzonte per vedere se nel cielo, che ha partecipato ai loro trasalimenti battendo «le sue ciglia bianche», spunti finalmente il rosa di «un’aurora» che trasformi l’ansia estrema dell’attesa in una nuova speranza di vita.

                                                                                        Onorina Dino


IL GRINZONE n.52