Notturno

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Antonia Pozzi rivive in questa poesia l’esperienza di un campeggio con il CAI di Milano, trascorso a Breil tra il 23 e il 30 luglio del 1933, in compagnia della carissima amica Elvira Gandini. La datazione della poesia riporta tra parentesi il luogo dove l’esperienza della montagna è stata vissuta (Breil) e, accanto, l’altro luogo dove il vissuto è ritornato nel cuore e si è fatto memoria e canto (Pasturo). E la memoria, anziché provenire dal passato, seppure recente, è così presente e viva e attuale che Antonia non può fare a meno di scrivere al presente, come se tutto si stesse svolgendo sotto i suoi occhi, mentre scrive: le sensazioni e le emozioni vissute a Breil sono state così intense che non le è stato possibile tradurle subito in poesia; scrive, infatti a Elvira: «Grazie, Elvira, ancora, per quelle sere. Grazie per tutta la tua bontà. Avrei voluto poterti mandare qualche cosa di mio, per te; ma è strano: in questi giorni non mi nascono nell’anima che note e accordi di temi lontanissimi, smarriti. E delle cose di Breil, ancora niente» (8 agosto 1933). Ci sono voluti la pace di Pasturo e il suo silenzio perché le emozioni si placassero e potessero finalmente trovare la porta della parola poetica.

   Sembra, questo, un notturno senza luna, senza luci, senza voci: «silenzio oscuro»; la sinestesia crea un fortissimo senso di disorientamento, di smarrimento, perché nessun segnale, né visivo né acustico, indica un percorso o un punto preciso e sicuro dove andare o dove fermarsi e trovare consistenza; e il «buio» della seconda strofa conferma tale sensazione. La strofa centrale, poi, suona come un tonfo, un precipitare nel buio e scomparire nel «silenzio oscuro» della terra. Se ci fermassimo qui, la poesia avrebbe un tono di morte, di dissoluzione per sempre, in un paesaggio fatto di nulla, nel quale l’unica cosa che si può immaginare è lo sguardo sbarrato nel buio, che proprio perché buio richiama immancabilmente l’impressione di essere sospesi nel vuoto.

   Invece vi sono luci e voci in questa poesia, luci e voci che sono il paesaggio dell’anima: esso si innesta nel paesaggio reale e lo rianima, gli dà consistenza nuova e altra vita; così gli occhi sbarrati nel buio-vuoto diventano sguardo rivolto al cielo, a inseguire il «profilo delle vette» che nasce «limpido» dal canto di Elvira e con la sua limpidezza rischiara il buio della notte; ma un’altra luce risplende nel «silenzio oscuro» perché la terra, che ha assorbito le «tue note», fa germogliare all’improvviso «un albero d’argento», che aggiunge nuova luce al «silenzio oscuro» e muove ancora gli occhi a seguire, questa volta, il sorgere inatteso dell’albero splendente, dal suono chiaro e cristallino come di tromba che annuncia, allegra, una lieta notizia, o come di polla d’acqua che vince la stretta fessura della roccia e si dona al sole e alla sete di chi le passa accanto. Luce e musica, dunque, invadono l’oscurità silenziosa della notte, che sembrava inghiottire tutto nei suoi abissi.

   Ma un’altra immagine viene a completare il paesaggio dell’anima, anzi due: nebbie e vento, che potrebbero di nuovo appesantire l’atmosfera, creare uno stato, se non di sofferenza e di paura, almeno di disagio; ma le nebbie, sospese sopra gli abissi, non vi precipitano, anzi, «percorse dal vento/ sollevano il suono spento/ nel cielo–».

   Con questo volo di nebbie e di vento, di musica e di canto, che lasciano la terra per continuare a vivere nel cielo, la poesia si chiude, dilatando il respiro in una sensazione di libertà e di infinito, dove la figura “curva” di Elvira, che suona , trova il suo vero posto.

 

                                                    Onorina Dino

 

IL GRINZONE n.50