Neve

 

Turbini di neve

che il vento strappa dai tetti

ed altra neve

più quieta

che un'altra mano

arcana

strappa dal cielo -

Turbini di neve fredda sull'anima

e tu non vuoi capire,

tu vuoi sognare

triste anima

povera anima

ancora

finché una mano

arcana

strapperà anche il tuo sogno

come un cielo bianco invernale

e in pochi fiocchi nevosi

lo perderà

col vento.

 

10 febbraio 1932

  


  Voce di donna

 

Io nacqui sposa di te soldato.

 

So che a marce e a guerre

lunghe stagioni ti divelgon da me.

 

Curva sul focolare aduno bragi,

sopra il tuo letto ho disteso un vessillo –

ma se ti penso all'addiaccio

piove sul mio corpo autunnale

come su un bosco tagliato.

 

Quando balena il cielo di settembre

e pare un'arma gigantesca sui monti,

salvie rosse mi sbocciano sul cuore:

che tu mi chiami,

che tu mi usi

con la fiducia che dai alle cose,

come acqua che versi sulle mani

o lana che ti avvolgi intorno al petto.

 

Sono la scarna siepe del tuo orto

che sta muta a fiorire

sotto convogli di zingare stelle.

 

   18 settembre 1937

 

Voce di donna

leggi la poesia


59 pozzi


Antonia Pozzi dà voce a una donna che ha visto partire il marito per la guerra (forse la guerra di Spagna) e ne assume lo spirito, il cuore, e li interpreta con immagini forti e al tempo stesso domestiche.

La poesia si apre in modo insolito con il pronome della prima persona singolare, che suona come un grido possente e strozzato al tempo stesso, e una frase brevissima, che forma tutto il primo verso, a dire la forza del dramma che si consuma nel cuore della sposa del soldato e la sua determinazione a voler essere tale per tutta la vita, perché per questo è nata, di questo ha coscienza e desiderio. Tutto il verso si tende, nelle sue dieci sillabe, a comporre un messaggio d’amore indirizzato allo sposo, che possa udirlo non solo con l’orecchio, ma soprattutto con il cuore. E come non sentire il peso delle “lunghe stagioni”, dell’attesa che sembra destinata a non finire mai; e la violenza del predicato “divelgon”, come lo sposo fosse una giovane pianta sradicata dal suo suolo per essere trascinata altrove, con le radici esposte al vento di fuoco della guerra. Semplici ma intensi i gesti d’amore compiuti dalla sposa per lo sposo nell’intima solitudine della sua casa: “aduno bragi, / sopra il tuo letto ho disteso un vessillo”; per lui custodisce le braci sotto la cenere, per mantenerle vive e pronte a diventare fiamma, perché lo sposo, tornando, possa scaldarsi e perché lei gli possa preparare un cibo che lo ristori; stende una bandiera sopra il suo letto, che sia segno quotidiano della presenza di lui e memoria della sua lontananza. E se l’amato è un albero divelto, lontano e sempre esposto al pericolo e al rischio della vita, lei, l’amante, diviene un “corpo autunnale, un bosco tagliato”, che non ha alcuna parvenza di vita e chissà se rivivrà al ritorno della primavera, se, pure, ci sarà un ritorno.

La seconda parte della poesia - dopo i primi tre versi che dicono tutta l’ansia, la paura, l’angoscia e il fuoco d’amore che infiamma il cuore della sposa, condensato nell’immagine delle “salvie rosse”, che sbocciano da esso come da un giardino d’estate - si sviluppa con i toni e le invocazioni di una preghiera, e con le immagini dell’acqua e della lana, simboli della vita e dell’amore che la sposa desidera donare allo sposo. Infine la preghiera si conclude con la complessa bellissima immagine della siepe “scarna” che protegge l’orto. L’attributo, insolito per una siepe e aspro nei suoni, dice la fragilità della sposa, la sua povertà: essa è soltanto una donna, (come nel titolo della poesia) e non può fare grandi cose per lui; ma dice anche la sua forza, la sua tenacia, la sua fedeltà, icasticamente espressa nel predicato verbale “sta muta a fiorire”. Dove lo “stare” suggerisce la volontà ferma e decisa di aspettare che le “lunghe stagioni” della separazione finiscano, che “l’orto” prepari una nuova fioritura, mentre nel buio delle notti corrono “convogli di zingare stelle”, a richiamare al cuore della sposa il volto dello sposo-soldato, portatole via da un convoglio e, come le stelle-zingare, sempre errante, per andare là dove le battaglie lo chiamano.

La preghiera, questa preghiera, che chiude la poesia, è una nuova promessa d’amore, un nuovo giuramento di fedeltà. Questo, Antonia Pozzi, ha saputo leggere nella “voce” di una donna, ma di una donna che ama.

 

                                                                  Suor Onorina Dino


IL GRINZONE n.59



 


Neve

leggi la poesia


 

Cerchiamo di dare una cornice a questa poesia per poter entrare nella sua atmosfera temporale (quando?), geografica (dove?) e spirituale (perché?): le tre domande ci aiutano a comprendere le parole uscite dal cuore della poetessa e, quindi, il senso della poesia. Incominciamo dalla parte più evidente della cornice, quella più esterna, ossia quella geografica e cronologica, oltre che meteorologica: quando Antonia scrive Neve si trova a Pavia dall’amatissima Nena, dopo essere quasi fuggita da Milano, come scrive ad Antonio Maria Cervi, l’amato dell’ anima sua, in una lettera datata 11-13 febbraio 1932: «Vedi, Mimmino: ieri, dopo quell’ora terribile, ho deciso di venire qui, sola, dalla mia nonna[…] È caduta tanta neve, tanta neve e non accenna ancora a cessare […] Io mi sento tanto vicina a lei che è quasi giunta in fondo al cammino e con l’anima vecchia e serena adoro in lei l’immagine bianca della morte».

Il 1932 è un anno tra i più terribili nella vita di Antonia, quando l’opposizione del padre al suo amore per Antonello si è fatta feroce e questi, per nascondere la triste e tremenda verità alla sua amata, trova delle giustificazioni che lei non capisce e che perciò reputa insensate, alla sua volontà di troncare ogni rapporto e di andarsene via per sempre. Disperazione, dunque, è l’atmosfera interiore in cui Antonia si sente sprofondare.

La parola che apre la poesia «turbini» suona come un’esplosione della tempesta improvvisa che ha assalito l’autrice e rende visibili al nostro occhio, che legge, e sensibili al nostro orecchio, che ascolta, tutta la violenza e il conseguente scombussolamento che hanno investito il cuore di Antonia: esso si sente come trafiggere da quella T così dura, resa lugubre dalla U che l ‘accompagna e sferzante dalle consonanti RB che vibrano, rincorrendosi, come il ronzare molesto di un moscone prigioniero; una sensazione di vertigine si affianca allo stravolgimento del bianco soffice manto nevoso che ha ricoperto i tetti di Pavia durante la notte. Così bella e rasserenante la neve quando giace tranquilla e soffice, diffondendo luce e candore, sentimenti di purezza e di libertà, di leggerezza dell’anima; qui, invece, il bianco mantello è travolto e stravolto dal vento in un vortice che lo sbriciola e lo spappola in mille invisibili gocce destinate a disperdersi e a morire. Così è lo spirito di Antonia: frantumato dall’angoscia e dal dolore, non vede alcuna via d’uscita, alcuna direzione da seguire, alcuna speranza cui appigliarsi per reggere, per non crollare nel vortice della disperazione e dell’annientamento. A questo incipit così forte segue un’altra parola altrettanto violenta, il predicato «strappa», che regge l’incipit e che viene ripetuto alla fine della prima parte del testo, come a rafforzare la furia distruttiva di tutta la scena e viene ripreso al futuro «strapperà» nella parte conclusiva. E poi, sempre nella prima parte, il suono esplosivo e tagliente dei «tetti» e quello esplosivo e vibrante di «altra mano» e «altra neve» che, pure scendendo «più quieta», è anch’essa però soggetta alla violenza di una mano «arcana» che la «strappa dal cielo». L’aggettivo «arcana» non è casuale, ma assume un significato concreto: come già detto, la poetessa non capisce le motivazioni addotte da Antonello per volere rompere per sempre il patto d’amore con lei; esse sono avvolte nella nebbia del mistero, le sembrano scuse prive di fondamento, o, almeno, fondate sul sospetto: «Ascolta: che cosa ti ha spaventato così, dimmi? Che cosa ha potuto farti dire la cosa orrenda?... Farti desiderare di non tornare più!!! Che cosa, fuori di te? Che cosa, dentro di te? […]Mai come ieri, sul punto di perderti, ho sentito che tutte le radici del mio vivere sono in te e che se tu vai via, la mia vita se ne va con te», gli scrive ancora nella lettera già citata. La ripetizione, all’inizio della seconda parte della poesia, di «turbini di neve» è resa più drammatica dall’aggettivo «fredda», riferito alla neve che ora non è spazzata via dai tetti ma piomba «sull’anima»: il freddo esterno diventa freddo interiore, gelo del cuore, che non vuole rassegnarsi alla perdita dell’amato, alla perdita dell’amore, come dicono le iterazioni concitate e angosciate «tu non vuoi capire, / tu vuoi sognare / triste anima /povera anima» e l’avverbio di tempo «ancora», isolato in un unico verso quasi a voler fermare il tempo, a voler impedire il compiersi della tragedia. La concitazione della seconda parte del testo poetico fa avvertire il tremito di Antonia, il terrore che il suo sogno venga veramente disperso «in pochi fiocchi nevosi»: e sarà, il suo sogno, soltanto La vita sognata, quella che, nel 1933, raccoglierà in dieci bellissime poesie e regalerà al suo Antonello, per sempre.

                                              

                                                                  Suor Onorina Dino


IL GRINZONE n. 61



 


 


Il sentiero


Sperare

mentre il domani intatto sconfina

e tosto

dimenticare il volto

delle speranze, nel tempo vero.

 

Viali sognavi per la vita

e un esile

sentiero ti rimane.

 

Una sera

la tua montagna si ricorderà

di averti avuta

bambina

sul suo grembo d'erba;

e lontana vedendoti

a cercare

su perse rive le ombre

delle tue cose sepolte,

ti chiamerà coi cenni

antichi - delle campane.

 

Il tuo sentiero ti ricondurrà

lungo la valle,

per la conca prativa - al muro candido,

al cancello socchiuso.

 

Lassù, nel breve orto disteso

ai ritorni delle stagioni, ai cieli

della neve e dei venti

primaverili,

verranno bocche

di bambini sconosciuti

a cantare

sulla tua solitudine.

 

 30 gennaio 1935